ARTE E PUBBLICO

ART AROUND, PUBLIC ART

Sabato 19 novembre si è svolto in Villa Ghirlanda il convegno
ARTE E PUBBLICO.
UNA GIORNATA DI CONFRONTO SUL SIGNIFICATO DELLE PIU’ RECENTI
OPERAZIONI DI ARTE PUBBLICA


Gabi Scardi, 
critico d’arte e moderatore del convegno
[expand title=”Introduzione“][box]Gabi Scardi
Introduzione

L’arte come concreta opportunità di adesione alla realtà; come filtro poetico attraverso il quale osservare, con sguardo rinnovato, più intenso e consapevole, il contesto in cui viviamo; ma anche come occasione di intervento afferente la sfera pubblica.
Di questo tema si è molto parlato e dibattuto negli ultimi decenni, nella consapevolezza che le sensibilità e le coinvolgenti energie messe in campo nell’ambito dall’arte contemporanea si possono tradurre in interventi “locali”, ma atti ad affrontare temi cruciali e di ampio respiro; possono arrivare ad incontrare aspirazioni e necessità legate alla qualità della vita, ad interagire con le molteplici narrazioni che s’intersecano nello spazio di una città, a generare desiderio di cambiamento e stimolare proiezioni per il futuro. Il patrimonio di idee e di progetti generati dagli artisti può dunque prendere forma in operazioni di grande impegno e di grande valore in termini di ricaduta non solo culturale, ma sociale; e rappresenta una preziosa risorsa per la realtà in cui viviamo e un agente di crescita nei processi di trasformazione che necessariamente investono il nostro mondo. Per questo gli artisti possono costituire importanti interlocutori per un’amministrazione pubblica. E infatti, se il caso delle iniziative indipendenti sviluppatisi in risposta a contesti di riferimento specifici è frequente, numerosi sono stati anche, negli ultimi decenni, i progetti avviati su istanza o con il supporto di amministrazioni o di istituzioni pubbliche.
Le criticità, però, non mancano.
Il convegno ha preso la forma di una riflessione a più voci che ha coinvolto critici, curatori, storici dell’arte e amministratori pubblici nell’analisi di una serie di casi e di temi. Ne sono emersi potenzialità e contraddizioni, opportunità e opportunismi, considerazioni riguardanti la facilità di una strumentalizzazione rispetto a interventi sempre necessariamente sperimentali nella forma e nei contenuti, ma anche le complessità del rapporto tra gli artisti con il variegato pubblico a cui l’arte si rivolge. I contributi si sono concentrati di volta in volta su singoli progetti o su specifici aspetti della relazione tra arte e sfera pubblica, e l’incontro si è sviluppato come densa occasione di confronto. Due questioni hanno sotteso l’intera giornata di lavoro: quella della ricezione o della resistenza da parte del pubblico rispetto all’intervento artistico contestuale, e quella di cosa sia lo spazio pubblico e in quale direzione si stia evolvendo. Correlati a questi temi, sono emersi numerosi, essenziali spunti di discussione. Tra l’altro si è parlato dell’importanza fondamentale dell’autenticità d’intento dell’artista e della responsabilità individuale dei curatori che affiancano il progetto, della competenza degli operatori, del rigore dei metodi, della trasparenza degli intenti e dei processi operativi.
Così nell’ambito della giornata è stata sottolineata la capacità, che l’opera d’arte ha e ha sempre avuto, di leggere la forma della città da una parte, di organizzare intorno a sé lo spazio, e quindi anche i comportamenti umani, dall’altra. Si è parlato della possibilità che l’arte costituisca un’effettiva risposta a una collettività polifonica; una risposta a lungo termine che sta tra il reale e il possibile e sa sfruttare le caratteristiche della situazione esistente, che non non arretra di fronte alla diversità, ma ci si addentra; che non si omologa a quell’immagine fittizia, di una città armoniosamente monolitica e immutabile, che spesso costituisce una scappatoia veloce rispetto alla ricerca di soluzioni reali per questioni che investono la città nella sua complessità.
Al contempo però è stato evidenziato il rischio che i progetti artistici sul territorio vengano assunti dalle amministrazioni pubbliche non in quanto capaci di innescare processi virtuosi, ma in virtù di un carattere di evento o addirittura di intrattenimento ludico al quale si attribuisce la possibilità di generare un facile consenso.
Nell’ambito della giornata si è discusso il fatto che spesso, all’interno delle amministrazioni, è possibile individuare professionisti di assoluto valore, in grado a volte di lavorare malgrado le rigidezze, le carenze e il disinteresse di assetti amministrativi e legislativi poco consoni alla sperimentazione che caratterizza l’arte contemporanea; ma non si tratta della norma. Più frequenti sono le situazioni in cui gli interlocutori con cui ci si confronta risultino dotati di scarse competenze. La mancanza di interfaccia rischia, in molti casi, di vanificare una progettualità di livello. Molti altri i temi sono stati messi in campo. Non ultima, è emersa una domanda che inevitabilmemente accompagna un’attività sperimentale e in continua evoluzione: su quali basi, con che tipo di strumenti possiamo analizzare esito e valore di un intervento artistico?
La varietà di approcci artistici presenti nell’ambito del progetto ART AROUND e l’incontro con Beat Streuli, attualmente impegnato in un progetto sul territorio insieme al Museo di Fotografia, non ha fatto che confermare l’unicità di ogni progetto e la necessità di affrontare le questioni relative alla relazione tra arte e sfera pubblica con impegno, con riguardo, con attenzione.
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Interventi di:

Adriana Polveroni, giornalista e critico d’arte
[expand title=”Arte pubblica ed emergenze critiche“][box]Adriana Polveroni
Arte pubblica ed emergenze critiche

Dopo alcuni decenni di esperienza di Arte Pubblica e dopo che questa ha assorbito molte delle energie che in passato si erano concentrate nell’Arte Ambientale, è maturo il momento per interrogarsi su di essa a partire da alcuni fatti concreti. Provo a riepilogare brevemente i tratti salienti e le motivazioni per cui è nata l’Arte Pubblica, che si è strutturata per lo più come un linguaggio critico mirante ad affrontare da una prospettiva innovativa l’autoreferenzialità di cui spesso viene accusata l’arte.

Fin dagli anni Sessanta, l’incontro con il pubblico, e anzi l’avvicinamento di fasce eterogenee di pubblico normalmente fuori dal sistema dell’arte, hanno costituito uno degli obiettivi fondanti di questo movimento. La riqualificazione del territorio degradato da incuria e speculazione, o più semplicemente trascurato, è stata un’altra finalità importante perseguita dall’Arte Pubblica che, attraverso la presenza dell’artista, ha agito nel senso di una “bonifica”dell’ambiente. Su questo si sono saldati a volte gli interessi delle amministrazioni pubbliche: anche in Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta, abbiamo visto il fiorire di molte iniziative, progetti culturali realizzati fuori dal museo in quanto portatori di un audience più larga e implementabili a basso costo, ovvero con budget decisamente inferiori a quelli richiesti ad esempio per il varo di strutture stabili come i musei.

Nell’articolarsi di queste caratteristiche notiamo il venire in essere di alcuni passaggi decisivi, una trasformazione del linguaggio artistico e del ruolo dell’artista, sia pure non esente da una certa ambiguità:

–       Nell’Arte Pubblica viene meno la presenza “materica” a favore di soluzioni che si fanno via via sempre più dialogiche e relazionale: l’intervento dell’artista consiste sempre meno in un “manufatto”, in qualcosa dotato di compiutezza e di cui sono individuabili un inizio e una fine temporali, ma si caratterizza come un fare processuale, un’azione mobile e che mobilita risorse e linguaggi diversi da quello meramente materico il quale, pur essendo di ordine installativo, ha tuttavia la sua origine nel monumento (molto diffuso soprattutto nelle piazze italiane).

–        In alcuni casi l’Arte Pubblica presenta uno slittamento dall’attenzione critica verso il paesaggio e il contesto urbano verso qualcosa che possiamo definire “intrattenimento ludico”. Uno degli esempi è dato dal parco di Villa Manin che fu realizzato tra il 2005 e il 2006 fa a Codroipo sotto la direzione di Francesco Bonami con l’eloquente nome di “Luna park. Arte fantastica”, dove noti artisti hanno dato vita a installazioni che non dialogavano con la morfologia dell’ambiente ma che erano visibilmente orientate a soddisfare e a “incontrare” i diversi pubblici. Tale modalità “ludica”, che rischia di fare dell’artista un “agente del consenso”, si riscontra ovviamente nei parchi destinati all’infanzia e in molte delle soluzioni di arredo urbano il cui allestimento sconfina nel campo delle “creative industries” (design urbano, design inteso soprattutto come codice formale teso a “intrattenere” e “rallegrare” l’utente).

–       Nelle sue forme migliori l’Arte Pubblica ha significato l’apertura di un processo di cittadinanza operato dagli artisti. E’ accaduto nella fase preparatoria di Arte Pollino, il progetto nato all’interno del parco lucano che ha visto il coinvolgimento di molti giovani abitanti di quell’area in un processo di “riappropriazione culturale” della stessa. D’altra parte, proprio Arte Pollino, specie con le installazioni di Carsten Hoeller e Hanish Kapoor – rispettivamente due grandi giostre piazzate sulla cima di una collina deserta e un cinema d’ombre realizzato vicino un albergo e stazione termale – non curandosi di allacciare una relazione forte con il paesaggio, ma solo di arricchirlo con interventi che sconfinano nel decorativo (specie Hoeller), avvicinano l’artista a quella deriva di agente del consenso cui si è già accennato.

–       Nei progetti di Arte Pubblica, talvolta si è andati oltre la spinta all’assunzione di un processo di cittadinanza, arrivando a conferire al pubblico parte dell’autorialità del processo artistico. Penso che tra gli episodi più significativi possiamo citare il progetto “Salviamo la luna”, realizzato a Cinisello Balsamo dall’artista tedesco Jochen Gerz e soprattutto i progetti che il gruppo curatoriale a.titolo ha realizzato a Mirafiori adottando modalità già sperimentate in Francia per cui gli abitanti di un quartiere non sono i destinatari di un’opera ma sono essi stessi i “nuovi committenti”, che scelgono l’artista affidandogli la realizzazione di un progetto che riguarda primariamente la loro vita quotidiana. Penso che in questo caso sia corretto parlare di “appropriazione”, più che di “riappropriazione”.

–       In una realtà come quest’ultima, e in qualche altro progetto di Arte Pubblica, notiamo il cambiamento della figura dell’artista allorché entra in un contesto specifico e  “si mette in ascolto”. Si fa carico dei processi partecipativi fino a ad agire in territori extrartistici che si avvicinano all’urban planning, alla mediazione sociale e alla governance del territorio. Adottando quindi una modalità opposta a quella notata precedentemente nell’approccio ludico.

C’è un ultimo elemento da tener presente e che penso sia destinato ad avere sempre più peso in futuro: la trasformazione dello spazio pubblico. Negli ultimi decenni si è sempre più assottigliata la tradizionale distinzione città/campagna a favore di una dimensione urbana che è stata definita “città infinita”. Lo spazio è quello urbano e il non spazio urbano sopravvive nella forma di sacche residuali all’interno di questo. Ciò significa che gli interventi di Arte Pubblica devono necessariamente articolarsi in uno spazio non solo sempre più urbano, ma soprattutto abitato. L’Arte Pubblica intesa per esempio come azione nell’ambito di una memoria priva dei soggetti della stessa, o come intervento in ambienti naturali ma non popolati, come è per esempio il Pollino, si configurano come episodi “spot” privi di consecutività processuale e concettuale perché privi anzitutto dei soggetti che dovrebbero condividere e assumere l’azione dell’artista. Non a caso dopo anni di interventi nel parco-museo di Fiumara d’arte in Sicilia, vasto territorio puntellato solo da qualche piccolo paese generalmente lontano dalle installazioni, il suo ideatore Antonio Presti ha trasferito buona parte delle sue iniziative a Librino, quartiere periferico di Catania. A conferma che l’Arte Pubblica per esserci deve interagire ed esprimersi necessariamente con e nel pubblico. Solo questo, infatti, può veramente metterla a riparo dall’autorefenzialità di cui l’arte ha cercato di prendere le distanze molti anni fa.

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Francesco Tedeschi, docente di Storia dell’arte contemporanea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
[expand title=”Immaginare la città: può l’arte agire sul territorio?“][box]Francesco Tedeschi
Immaginare la città: può l’arte agire sul territorio?

Nella mia comunicazione per l’incontro Arte e pubblico, pensata con carattere indagativo e indirizzata a sollevare alcune questioni, più che a dare risposte, sono partito da alcune domande. Innanzitutto occorre sempre chiedersi quale compito possa assolvere l’arte nello spazio pubblico. La sua funzione può essere molteplice: in primo luogo di natura “estetica”, in quanto sempre l’azione dell’artista cerca di raggiungere una formalizzazione, qualunque essa sia, all’interno delle diversificazioni che tali termini hanno assunto e possono oggi assumere; quindi, essa può avere una funzione comunicativa o “dimostrativa”, poiché molto spesso, nell’agire con la volontà di andare oltre la specificità di un’operazione intrinseca al fare dell’artista, l’opera vuole attivare una comunicazione o dimostrare l’esistenza di un problema; da questo, si desume una possibile funzione “sociale” dell’operazione artistica, che talvolta assume connotazioni politiche o polemiche, o che semplicemente cerca di creare una ragione per azioni che concernono la dimensione del vivere e della relazione fra le persone e con i luoghi; ma non si può negare che l’arte che si inserisce in uno spazio pubblico possa avere anche una funzione “progettuale”, in questo venendo a collaborare o concorrere con prospettive di genere architettonico e urbanistico.

Considerando queste premesse, si può osservare che l’arte che agisce in uno spazio pubblico tende comunque a uscire dall’ambito specifico, per andare a incontrare altre possibilità di confronto e collaborazione, con discipline della comunicazione, con le scienze umane (antropologia, sociologia, urbanistica), con un ambito che sembra all’arte esterno. Occorre però considerare che un “limite” dell’arte diretta a una prospettiva pubblica, rispetto al ruolo svolto da altri operatori culturali, sia una ambiguità legata all’atteggiamento dell’artista, che anche se opera motivato da una sensibilità sociale e in direzione di un risultato che non sia solo “estetico”, tende comunque a un’affermazione personale, almeno nei termini in cui il suo contributo si configura all’interno di un processo di definizione di autorialità, cosa che può disturbare eventuali altri soggetti che con lui (o con loro) partecipano alla realizzazione del progetto. Si potrebbe quasi sostenere che se l’arte vuole agire nel sociale dovrebbe rinunciare a molte delle sue prerogative. L’obiettivo, cioè, non dovrebbe essere “artistico”, ma legato alla qualificazione di un luogo o alla risposta, se non alla soluzione, di un problema. Anche se, in modo diverso, questo è un discorso che si ripropone ogni volta che si discute del ruolo dell’arte in funzione “politica”.

Al di là di queste considerazioni preliminari, il tema che ho voluto affrontare riguarda una dimensione allargata, svolta prendendo in considerazione il modo in cui l’arte dialoga con le forme della città, nella sua complessità e in un modo esplicitamente legato alla fisionomia urbana, muovendo anzi dai modelli dell’urbanistica.

Per questo, penso utile distinguere le sfumature che riguardano la definizione di “spazio pubblico”, che mi viene da considerare come luogo di relazione, ma qualificato in primo luogo per i suoi caratteri fisici e architettonici, pur essendo aperto all’uso che di esso fa la popolazione che vi abita o vi transita, rispetto alla qualificazione di una “territorialità”, entità costituita immediatamente dalla fusione fra i tratti geografici e la sua dimensione sociale, insieme inestricabile dell’ambiente e delle risposte ad esso che derivano dalla sua percezione e dalla sua creazione per effetto della socialità. Come ebbe a dire già alcuni anni fa Edward Soja, “l’uomo è un animale territoriale e la territorialità influisce sul comportamento umano a tutti i livelli dell’attività sociale” (E. Soja, The political organizations of space, Annals of Association of American Cartographers, a. LX, 1971, p. 19, cit. in M. Roncarolo, Territorio, voce in Enciclopedia Einaudi, Torino, vol. XIV, 1981, p. 218).

La relazione fra i due termini, che non risultano così nettamente separati, ma nemmeno sovrapponibili, è utile a considerare come sia necessario valutare il grado di apprezzamento che l’intervento artistico può dare alla qualificazione dello spazio pubblico, potendo porsi a difesa del “paesaggio” o delle ragioni di convivenza sociale in senso “territoriale”.

In questo insieme di problemi si verifica come una certa parte dell’arte che ha a che fare con le condizioni ambientali si ponga in stretto rapporto con l’urbanistica, nei suoi sviluppi degli ultimi decenni, a partire dal dibattito emerso nel secondo dopoguerra. Ci si può riferire, in questo senso, alle riflessioni che hanno condotto una critica al progetto nella sua qualificazione autonoma, ma anche alla  città nella sua evoluzione come organismo autonomo. Lo si può notare negli scritti degli storici della città, come Lewis Mumford o Françoise Choay, ma più ancora nelle esplorazioni che specificamente introducono la necessità di ricorrere a letture della dimensione esistenziale e sociale della città, a partire dagli interventi di Henri Léfebvre, o dalla critica alla città americana portata da Jane Jacobs, per considerare le indagini sociologiche di Chombart de Lauwe, e quelle sulla percezione dello spazio urbano di Kevin Lynch, con il suo studio sull’“immagine della città”.

Queste basi teoriche, poste fra gli anni Cinquanta e Sessanta, sono indispensabili per comprendere le posizioni attorno alla città elaborate dal Situazionismo e dalle forme e “situazioni” ad esso implicitamente collegate.

Le prospettive di un’arte “urbanistica” si possono riconoscere nel rapporto dialettico o nella duplice direzione di un’opzione esistenziale e di un’altra progettuale, che spesso si intrecciano o convivono nelle proposte formulate da artisti che hanno immaginato delle città, o delle forme di città, che hanno a che fare con l’utopia o con le forme distorte di utopia, le distopie. Si possono in questo riconoscere precise continuità fra esperienze elaborate fra gli anni Cinquanta e Settanta ed altre a noi più vicine, nel segno di una corrispondenza di suggestioni e di proposte, che pure si applicano ai diversi modelli formulati e alle diverse situazioni in cui sono calate.

In particolare, può essere singolare, in questo percorso, considerare come vi siano stati e vi siano autori che dal confronto con la dimensione esterna abbiano formulato immagini e progetti di città autonomi o ideali, procedendo ad elaborare delle rappresentazioni che si configurano in primo luogo come mappe o maquette, vedendo in queste, come accade nelle fasi progettuali, i punti di partenza per la creazione del “territorio”.

In questo senso, si può osservare che ogni intervento d’artista nello spazio pubblico o nella città ha a che fare con le due componenti, ma non si può prescindere dal carattere contestuale anche nel rapportarsi alla storia e ai caratteri del luogo. Immaginare la città significa portare attenzione alle ipotesi d’intervento allargato, alle iniziative di un’arte con ambizioni urbanistiche, che immagina una città diversa o indaga i caratteri propri della città.

Se ne può avere una prova proprio muovendo dal situazionismo e dalle operazioni poi confluite da una parte nelle opzioni “esistenziali” degli itinerari compiuti alla scoperta della città, e dall’altra nelle proposte coltivate per decenni da Constant Nieuwenhuis di una città “utopica”, New Babylon, che raccoglieva diversi elementi dell’arte e della progettazione degli anni Sessanta-Settanta.

Altre ipotesi di città progettate da artisti si succedono da quegli anni, e in modo diverso prefigurano un conflitto o un dialogo con le proposte provenienti dal mondo dei professionisti dell’architettura e dell’urbanistica. Tra queste, le creazioni di Pietro Consagra, di Jean Dubuffet o di Ugo La Pietra possono avere un particolare interesse, per la loro correlazione con il linguaggio espressivo degli autori, che si dirige a una rilettura dello spazio ambientale.

Oltre a queste, altre ipotesi utopiche e distopiche – spesso le due strade sembrano incrociarsi, nella realtà come nella letteratura – sono state formulate da autori come Arakawa, Kabakov, Brodsky, Anne e Patrick Poirier, Atelier Van Lieshout, per citare alcuni casi esemplari, di cui val la pena approfondire i caratteri.

Rispetto a queste elaborazioni progettuali, fondate sulla costruzione di modelli e di materiali documentari che generano una tipologia a sé stante, il modo in cui altre ipotesi d’azione proposte nell’arte più recente, fra gli anni Novanta e oggi, hanno condotto a nuove forme di elaborazione di progetti legati alla rappresentazione della città, vanno da esplorazioni descrittive (cartografiche), utili a evidenziare taluni aspetti dei modelli rappresentativi o di conoscenza del territorio (Disparition, Paola Di Bello, le “transumanze” del gruppo Stalker), a proposte di lettura dei luoghi che tengono conto del contesto sociale “reale”. Tra questi, si possono considerare le proposte di Luca Vitone (con la sua ricerca sui luoghi dell’anarchia a Basilea e a Roma, o la ricostruzione dei carrugi di Genova, la ricerca sui caratteri della città “multietnica” e altro ancora…), o dell’attività di Isola Art Center, con l’azione di Bert Theis, ancora di Paola Di Bello, o di Stefano Boccalini, per accennare ad autori operanti in un contesto prossimo, ma anche i molti progetti di Alberto Garutti, o, in chiave ancora più “relazionale”, alla ricostruzione dell’immagine della città proposta da Studio Azzurro con le “città sensibili”, recentemente proposta all’Expo di Shangai.

Tutti episodi importanti, fondati su una altrettanto valida esemplarità, che ci pongono alcune ulteriori domande: può l’arte incidere sul territorio? Come passare dalla rappresentazione all’azione? Quale obiettivo d’intervento può avere l’operazione artistica?

Evidentemente non si può immaginare che l’arte modifichi le strutture sociali, ma che, operando nel suo specifico, che può confinare con l’urbanistica nel senso della progettazione e delle forme di intervento sociale, senza subordinarsi a obiettivi ad essa esterni, possa contribuire a una lettura della realtà, a una presa di coscienza, mediata da forme di elaborazione dei luoghi e di memoria degli stessi, che lasci delle tracce, non solo e non specificamente visive, nel confronto con le condizioni del vissuto e nel modo in cui la città e il territorio vengono quotidianamente usati dai loro abitanti.

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Lisa Parola, curatrice, a.titolo
[expand title=”Il desiderio come virtù civile“][box]Lisa Parola
Il desiderio come virtù civile 

L’intervento proposto da a.titolo nell’ambito del convegno Arte e pubblico, si è sviluppato nel corso del 2011 all’interno del collettivo curatoriale e nasce da una sollecitazione di Françoise Hers, artista e ideatore del programma d’arte pubblica francese Nouveaux Commanditaires. A un decennio di distanza dall’attivazione del programma in Italia, siamo state infatti invitate a scrivere un saggio sulla nostra interpretazione e applicazione di Nuovi Committenti che si è svolta, tra il 2001 e il 2008, nel quartiere Mirafiori all’interno del programma europeo di riqualificazione Urban2 della Città di Torino.

Il testo, che nella sua versione definitiva, sarà pubblicato con altri interventi di mediatori culturali europei nel 2012 per la casa editrice Les presses du réel, intende affrontare il tema dello spazio pubblico e della sfera pubblica. In particolare si propone come spunto di riflessione intorno all’idea di ‘pubblico’ che negli ultimi anni, attraverso alcuni immaginari proposti dai mezzi di comunicazione e da una parte del dibattito politico, hanno preso forma nel nostro paese con un’inevitabile influenza anche sull’opinione pubblica. Abbiamo voluto analizzare il progetto d’arte pubblica da noi curato tenendo conto anche della cornice storica e politica che lo ha accolto: i primi anni di una cultura europea che si presentava aperta all’innovazione e alla creatività e capace al contempo di proporre un’idea di “responsabilità collettiva”. Una posizione questa, che oggi pare essere, se non dimenticata, di certo messa in grave difficoltà, e non solo per la drammatica crisi economica che le realtà urbane stanno attraversando ma anche per una mancata fiducia in processi culturali improntati su una cittadinanza oltre che attiva, consapevole. Una crisi, quella dello ‘spazio pubblico’ in Italia, nella quale è venuta meno il ‘senso di luogo’, il confronto democratico su usi e pratiche del vivere urbano. Siamo convinte che inserire questi temi anche nel dibattito dell’arte e della cultura contemporanee sia una delle priorità delle politiche e alle programmazioni che si dovrà affrontare nel decennio a venire.

Di seguito riportiamo alcuni spunti ed estratti dal testo.

Nel ragionare del progetto che abbiamo attivato e curato a Torino, in relazione alla percezione dello spazio pubblico degli ultimi anni in Italia abbiamo voluto evidenziare come la metodologia di Nuovi Committenti comprenda, in ogni sua parte, idee di “democrazia”, “cittadinanza” e “responsabilità collettiva”che oggi hanno un valore importante se si vuole ragionare d’arte e pubblico. Proprio in questo ultimo decennio infatti, nel nostro paese la nozione di spazio pubblico è stata oggetto di una profonda trasformazione. E sempre più spesso lo spazio della collettività è stato ricondotto entro la giurisdizione emergenziale della Protezione Civile (chiamata a intervenire, per esempio, nella costruzione delle New town dopo il terremoto dell’Aquila o nella gestione dei rifiuti urbani di Napoli). Omologato, il più delle volte, dal principio della “sicurezza pubblica” e del “decoro urbano”, lo spazio pubblico è ora più che mai uno spazio definito e ordinato in negativo, per dissuasioni e divieti. Spesso ripensato e calibrato su un’immagine fittizia di una monocittadinanza armoniosa, la cui convivenza pacificata è attuabile solo a forza di esclusioni; uno spazio controllato dunque ma immobile e opaco. Tanto opaco che, con sempre maggiore frequenza, il dibattito democratico, che prevede confronto e posizioni plurali, si è andato spostando verso l’alto. Nelle nostre città gli speaker’s corner hanno raggiunto altezze azzardate e chiesto ascolto sui più svariati diritti (il lavoro, la cittadinanza, la scuola ecc.) sui tetti delle fabbriche o la cima dei monumenti. Luoghi estremi sono diventati bivacchi di democrazia che hanno lasciato apparentemente silenziosa la piazza.

Se l’altezza ha accolto la parola per dare voce a un mancato confronto, al contrario il piano strada è sempre più disegnato con muri, confini, zone delimitate. Ognuna di queste barriere nasce all’interno di processi culturali e politici che delineano un “presente urbano” mosso da precise posizioni ideologiche. Tutto questo all’interno di una cornice governativa che ha approvato nel 2008 il “pacchetto sicurezza” volto a istituire “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” e “contrastare fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata”, assegnando innanzitutto “maggior potere ai sindaci” e introducendo “la presenza di militari con poteri di polizia nelle città”. Alla sua entrata in vigore è seguita, pressoché in tempo reale, una proliferazione di delibere e ordinanze comunali. Questa eterogenea casistica spesso ha riunito sotto l’unica definizione di ‘decoro urbano’: urgenze sociali, nuove povertà, prostituzione, immigrazione, clandestinità e comportamenti non “autoctoni” (da quelli religiosi a quelli quotidiani, ecc.).

Un continuo deliberare che ha avviato un processo di frammentazione dello spazio pubblico e le cui regole cambiano di città in città. Questo tipo di provvedimenti, se ad esempio fossero stati applicati a Torino nel corso del programma Nuovi Committenti, avrebbero avuto una ricaduta sul senso, oltre che sull’utilizzo di alcune delle opere del programma e avrebbero reso in un certo senso “illegale” l’uso della scultura abitabile di Lucy Orta, Totipotent Architecture nel Parco lineare di corso Tazzoli, pensata per accogliere più persone, di giorno e anche di notte, grazie a uno specifico sistema di illuminazione. Così come “illecito” risulterebbe l’accesso notturno al Multiplayer di Stefano Arienti, un playground per i giochi di squadra collocato in una vicina area verde.

E’ evidente che quello che si è verificato in Italia in questi ultimi decenni, è una palese confusione tra spazio pubblico e ordine pubblico che si è sviluppata nelle sue forme più estreme anche attraverso un’escalation ideologica e si è diffusa come una sorta di ‘branding urbano’ con la comparsa del simbolo di un partito del Governo Berlusconi – la Lega Nord – sul selciato di due piazze di Cividate al Piano, in provincia di Bergamo, e di Carrù in Piemonte, e sulla facciata e fra gli arredi della scuola pubblica appena costruita ad Adro, in provincia di Brescia.

Questa casistica di politiche e norme riconoscono quali requisiti necessari e distintivi del “buon” cittadino la proprietà per diritto, la stanzialità (e di qui, implicitamente, la residenza e la nazionalità). Al di là della cronaca, questi avvenimenti possono essere letti come epifenomeni di una strategia di erosione dell’agorà a favore dell’oikos, suggellata dalla ridondanza dello slogan “padroni a casa nostra” con un lessico che si è appropriato di parole quali comunità e territorio per restituirli in un’accezione escludente.

Ci pare allora, tornando alla scala circoscritta di Nuovi Committenti a Torino, di rintracciare nelle richieste che hanno dato forma alle quattro opere di Mirafiori, una cultura civica fondata sull’accesso e sulla partecipazione alla dinamica democratica, orientata alla produzione di beni collettivi, afferenti a una nozione di comunità – plurale e temporanea- che non preesiste all’opera ma si ‘fa’ e si definisce lungo tutto il corso del processo. Un processo esercitato attraverso una relazione consapevole e plurale che è posta a fondamento del protocollo di Nuovi Committenti, e in generale della metodologia di a.titolo. Queste pratiche hanno reso possibile la realizzazione nel quartiere torinese di un campo da gioco (il Multiplayer di Stefano Arienti) e di una scultura abitabile (Totipotent Architecture di Lucy Orta) entrambi situati in un parco, di un’aiuola attrezzata all’interno di un complesso residenziale di edilizia pubblica (l’Aiuola Transatlantico di Claudia Losi), di un laboratorio didattico che ha trasformato i locali di un’antica cappella attigua a un comprensorio scolastico (il Laboratorio di Storia e storie di Massimo Bartolini). Ognuna di queste opere circoscrive e qualifica uno spazio sociale, immaginato e prodotto da cittadini riuniti specificatamente per questo scopo, partecipi di una progettazione alimentata da un sapere civico che, per via riflessiva e dialettica, si è sviluppato attraverso l’arte.

Tra i denominatori comuni che caratterizzano la declinazione torinese di Nuovi Committenti è evidente l’assenza di istanze possessive – proprietarie di spazio – a favore dell’accessibile, dell’aperto, del trasparente, del multifunzionale e dunque del diversamente utilizzabile. Per definire questi processi e queste comunità abbiamo usato termini come “comunità di immaginario” e “comunità di desiderio”. Due definizioni non casuali se si pensa che il CENSIS nel rapporto presentato nel dicembre 2010 ha individuato proprio nel desiderio, nel “tornare a desiderare” “la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”. Quello descritto nella ricerca è uno scenario di profonda crisi che unisce i problemi economi, i tagli dei bilanci, a livello centrale e locale, e il sistematico processo di svalutazione della cultura e delle arti in quello che fu Il bel paese e rende davvero attuale e auspicabile l’approccio desiderante di Nuovi Committenti. Non è un caso che a Mirafiori Nord le “comunità di immaginario” si siano costituite attorno a narrazioni su macrotemi del vivere e dell’esistente: memoria, sicurezza, paura, prossimità, estraneità. Oggi le opere del programma costituiscono formalmente ed esteticamente, delle presenze anomale rispetto a molti oggetti dell’arredo urbano contemporaneo concepito e progettato sulle funzioni della cosiddetta “sicurezza”. In tutta la loro concretezza, appaiono quali figure inverse dello spazio “scabroso”, “viscido” e “nervoso”descritto da Steven Flusty sulle quali oggi, sempre più spesso, si tende a pianificare l’uso del territorio urbano e la vita quotidiana dei suoi cittadini.

a.titolo è un’organizzazione non profit costituita da un gruppo di curatrici, storiche e critiche d’arte – Giorgina Bertolino, Francesca Comisso, Nicoletta Leonardi, Lisa Parola e Luisa Perlo – con lo scopo di indagare e sperimentare le potenzialità dell’arte contemporanea nell’ambito della sfera pubblica e sociale. a.titolo cura progetti di arte pubblica e context specific, mostre, produzioni d’artista, campagne fotografiche e progetti video, workshop, conferenze e pubblicazioni, promuovendo la relazione tra arte, territorio e comunità. Attiva a Torino e in Piemonte dal 1997, a.titolo si è costituita come associazione culturale nel 2001. Dal 2001 a.titolo è referente per Torino e il Piemonte del modello per la produzione di arte nello spazio pubblico Nuovi Committenti, finalizzato alla produzione di opere d’arte commissionate direttamente dai cittadini per i loro luoghi di vita o di lavoro, introdotto in Italia e promosso dalla Fondazione Adriano Olivetti di Roma sulla base di Nouveaux Commanditaires, concepito nel 1991 dall’artista François Hers, responsabile dei progetti culturali della Fondation de France (www.newpatrons.eu) . Con Maurizio Cilli a.titolo ha ideato e curato il progetto d’arte pubblica Situa.to (www.situa.to ) attivato nell’ambito di Your Time – Turin 2010 European Youth Capital, un programma per lo spazio pubblico, un’esperienza formativa a carattere interdisciplinare che ha coinvolto 30 giovani di età compresa tra i 22 e i 29 anni individuati tra oltre 200 candidati.

Dal 2009 a.titolo è stata incaricata della direzione artistica del CESAC, Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee di Caraglio (Cn) per il triennio 2010-2012.

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Vittoria Ciolini, direttore di Dryphoto arte contemporanea, Prato
[expand title=”Spread in Prato: nove anni di esperienze nella città“][box]Vittoria Ciolini
Spread in Prato: nove anni di esperienze nella città 

Spread in Prato è un progetto a cura di Pier Luigi Tazzi in essere dal 2002.
Per tre anni è stata  una mostra che si snodava nel tessuto cittadino fra aziende, esercizi commerciali, teatri, istituzioni, biblioteche, abitazioni poi abbiamo continuato in altri modi, e continuiamo ancora.
Nelle prime tre edizioni il curatore ha scelto gli artisti, le opere, la loro sequenza e la loro collocazione all’interno dei luoghi.
I luoghi rispondevano a quella che è la cartografia della città contemporanea, il mondo dentro il quale viviamo giorno per giorno, la loro scelta non è casuale e sono stati scelti da Dryphoto.
Per un mese e mezzo per alcuni anni le opere d’arte sono entrate a far parte del quotidiano di un gran numero di persone e il quotidiano di queste persone è stato visibile forse per la prima volta agli operatori del mondo dell’arte.
Le opere sono state inserite in un contesto al quale solitamente non appartengono e talvolta hanno fatto nascere il sospetto di essere state lì collocate per parlarti di altro, forse del rumore assordante dei telai, dei magazzini svuotati dalla crisi del tessile, della comunità cinese o di quella marocchina, della montagna di rifiuti che produciamo, del negozio di lusso ma anche del cheap cinese.
Spread in Prato è stato fino ad oggi l’accettazione del corpo della città, senza aggiungere altro a quello che già c’è, entrare in relazione con questo,  prendere la realtà come è e non come dovrebbe essere.
La sua origine va ricercata nella vocazione politica che ha accompagnato la nostra attività fino dalla nascita, cercare una relazione privilegiata con il territorio che abitiamo, lavorare tenendo conto del qui ed ora senza cadere in nessuna sorta di provincialismo.
Più precisamente le sue radici  sono da ricercare nella volontà di uscire dai vari cerimoniali espositivi, volontà che da tempo l’arte contemporanea ha espresso più volte, in modi e forme diverse, attraverso il rifiuto di vivere solo in ambiti privilegiati ed istituzionali per rapportarsi al territorio, alla vita che vi si svolge.

La prima edizione di Spread in Prato nasce appunto nel 2002, dopo un anno e mezzo di proficuo lavoro.
Avevamo compilato separatamente, noi e il curatore, due elenchi: uno comprendeva  fabbriche, uffici,  showroom, supermercati,  negozi, ristoranti,  l’altro artisti che avevano usato prevalentemente o saltuariamente la fotografia come strumento espressivo.
La mostra si rivolgeva, prima di tutto, a chi in quei luoghi transitava, per lavoro, per vendere, per acquistare e poi anche al pubblico  dell’arte, per  l’intera giornata inaugurale oppure su prenotazione durante lo svolgersi dell’esposizione.
In questa prima edizione la città industriale e la città multietnica sono state una sorta di modello rispondente al nostro, e non solo, immaginario all’interno del quale ci siamo mossi per trovare spazi in un certo qual modo “adatti”: la città fabbrica,  raccontata  attraverso le  industrie che ne  rappresentavano l’evoluzione storica e l’intera filiera tessile, la scelta di esercizi commerciali che mostravano come la popolazione e le abitudini della città erano cambiate per l’inserimento di nuovi cittadini di origine straniera, che hanno portato loro usi, costumi e prodotti.
Il consolidamento del progetto con  l’edizione del  2003 ha significato per noi radicarsi, entrare nel tessuto della città, confrontarsi con un ibridismo dove le contaminazioni, gli accostamenti, gli agglomerati di frammentario ed eterogeneo paiono privi di ogni giustificazione e difficilmente riducibili alle parole piane di una descrizione. In pratica non è stata una seconda edizione ma un  approfondimento, uno sviluppo del primo intervento.
Questa volta abbiamo incontrato non la città disegnata dai politici e dagli urbanisti ma quella disegnata dalla gente. Una volta individuato il punto di partenza è stato nostro compito seguire una sorta di tracciato invisibile dato da una mappa determinata dalla vita e dalla gente, una geografia disegnata dalla pratica ordinaria delle relazioni.
Per questa edizione sono state anche prodotte delle opere dagli artisti  Shao Yinong & Muchen e Robert Pettena.

L’edizione del 2004 ai luoghi della produzione e del consumo ha aggiunto quelli dello svago, della ricreazione, in un percorso temporale che inizia da una abitazione: è da casa infatti  che di solito partiamo per andare ad assolvere ai nostri impegni quotidiani, poi pausa pranzo in un’altra casa, di nuovo fuori e  infine a cena.
Le case per la colazione, il pranzo e la cena, essendo Spread in Prato un evento artistico, sono state case di collezionisti, scelti fra quelli impegnati nella vita culturale della città, e il pubblico  accreditato per questi appuntamenti è stato per metà gli artisti coinvolti nel progetto e tutte le persone che a vario titolo avevano contribuito alla realizzazione della manifestazione e per l’altra metà gli invitati della famiglia ospite.

Poi Spread in Prato è continuato con altre modalità.
Nel 2005 l’artista invitata è stata  Gea Casolaro e il suo lavoro Seguendo i fili che formano il tessuto della città è stato esposto al Museo del Tessuto di Prato nell’edizione dell’anno 2006.
Nel 2006 anche Spread Remix,  singole opere delle passate edizioni inserite in una mostra insieme ad opere di Xu Tan e Zheng Guogu e l’invito ad un  curatore,  Hu Fang, cofondatore e direttore artistico di Vitamin Creative Space di Guangzhou, per  una rassegna video installata in una Casa del Popolo.
Per finire, l’anno passato, attraverso la mostra di Thomas Ruff a Palazzo Buonamici, sede della Provincia, abbiamo riportato l’arte dentro i palazzi del potere e, attraverso la presenza dell’arte, li abbiamo riaperti a una fruizione pubblica anche se temporanea.

Sin dalla prima edizione non abbiamo mai avuto un feedback, all’inizio non ci siamo posti il problema ma poi forse sarebbe stato interessante avere un ritorno delle esperienze del pubblico visto che avevamo sentito la necessità di uscire dagli spazi deputati per incontrare anche un pubblico diverso.
A me sembrava che inserire un’opera d’arte in un contesto quotidiano producesse già di per sé un cambiamento simbolicamente forte, e sapevo perché necessitavo di questo cambiamento, ma concretamente questo nostro operare aveva prodotto degli spostamenti? E se si quali? Eravamo riusciti a innescare una risposta e un’interazione  da parte del fruitore, con ricadute sul piano estetico e sociale? E con che mezzi avremmo potuto analizzare tutto ciò senza rischiare di riportare il tutto entro schemi abusati e precostituiti, tipo questionari? Cercavamo un nuovo pubblico? L’abbiamo trovato? Oppure abbiamo trovato una nuova scenografia per il vecchio pubblico?
Un pubblico nuovo lo abbiamo trovato magari però occasionale, ma è importante fidelizzare il pubblico? Quanto era passato del messaggio estetico? Oppure quanto l’arte era stata intesa solo come pretesto per conoscere aspetti inediti della città?
Inoltre  quando abbiamo calato le opere d’arte in una scenografia reale mi sono resa conto che comunque queste raramente si mescolavano diventando parte integrante del contesto,  molto spesso mantenevano una autorevolezza tale da  avere  sempre una distanza rispetto al quotidiano che le circondava,  rimanevano insomma un evento extra-ordinario.
Va anche detto comunque che anche gli eventi extra-ordinari fanno parte della vita.

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Carlo Birrozzi, architetto, Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
[expand title=”Arte e pubblicità nella città storica, il caso di In Alto a Milano 2002-2004“][box]Carlo Birrozzi
Arte e pubblicità nella città storica, il caso di In Alto a Milano 2002-2004

L’esperienza di IN ALTO ha coinvolto a Milano tra il 2002  e il 2004 le Soprintendenze per Beni Aarchitettonici e Paesaggio e per il Patrimonio Storico e Artistico ed Etnoantropologico e le Civiche raccolte d’arte. È nata perché la legge di tutela (oggi Dlgs 42/2004) impone l’autorizzazione della competente Soprintendenza per  l’affissione di pubblicità su o in prossimità di beni tutelati. Questo obbligo normativo ha aperto una discussione tra questi uffici sul ruolo dei monumenti nello spazio urbano e nella città storica oggi.

Nei cantieri di restauro di edifici nel centro cittadino, la temporanea sottrazione dell’edificio alla visione crea un vuoto generalmente divorato dalla pubblicità, che in quegli anni, prima della crisi, investiva ancora ingenti risorse. Questa cannibalizzazione aveva però suscitato non poche critiche e malumori apparsi anche sui quotidiani. La pubblicità costruisce una rete continua all’altezza dell’occhio dell’osservatore monopolizzandone l’attenzione, lasciando in secondo piano le piazze, le case, i monumenti. Il linguaggio che usa e la sua presenza in tutti i momenti della vita le consente di agire in modo subliminale.

Ci siamo domandati, quindi, se il linguaggio dell’arte contemporanea avrebbe potuto spezzare la consuetudine a non guardare, insinuare un dubbio, una visione differente durante l’attraversamento della città. Abbiamo quindi proposto ai concessionari di pubblicità di esporre accanto al loro messaggio un’opera d’arte creata appositamente per quel luogo provando a imporre in questo modo una pausa al sottofondo martellante di immagini note con un’altra che “parlasse all’altra metà di noi”, quella distratta.

Elio Grazioli nel testo prodotto per il catalogo della iniziativa interpreta bene questa aspirazione e sostiene che l’arte deve “insinuare un’altra visione, altri modi d’intendere, di sentire, altre sensibilità” e Marco Belpoliti nello stesso testo dice: “credo che l’arte si faccia oggi come fatto politico e non come fatto estetico. Per fatto politico intendo dire che l’artista oggi è tale non se fa delle belle opere, ma se aggredisce in modo politico dei gangli vitali, dei punti dolenti o complessi della società.” Questa seconda affermazione richiama la responsabilità della committenza che, nel caso in cui si tratti di un ente pubblico, deve essere ancora più accorta e consapevole. Nell’ambito del progetto abbiamo riflettuto a lungo sugli artisti da coinvolgere e sulle loro proposte, giungendo a modificarne alcune o addirittura a rifiutarle quando non idonee.

Per la scelta delle località e degli artisti è stato formato, tra gli enti coinvolti, un gruppo di lavoro, che ha deciso di farsi supportare da un gruppo di esperti attenti anche al panorama giovanile operante a Milano: Corrado Levi, Luca Beatrice e Alessandra Pioselli, in una seconda fase Stefano Chiodi e Andrea Lissoni.  L’iniziativa è stata accolta dai concessionari di pubblicità e quindi è potuta partire, ovviamente senza soldi. Agli artisti è stato chiesto  di interpretare il luogo e il tempo in cui agivano e sono stati seguiti nella produzione delle loro opere. Purtroppo non è mai stato possibile conoscere quali fossero i messaggi pubblicitari con i quali condividevano lo spazio. Nella prima edizione Paola Di Bello con L’enigma dell’ora ha interpretato lo spazio del cortile di Brera e il cantiere di restauro del suo orologio; il cortile del Centro Svizzero di Cultura ha ospitato Ugo Rondinone con un’opera poetica adatta ad uno spazio raccolto; Ottonella Mocellin ha proposto un lavoro di rottura sull’Arco della Pace. Successivamente Sarah Ciracì ha reinterpretato un simbolo pacifista in un triste momento di guerra. Carla Accardi ha offerto un’opera per la facciata di S. Fedele e Giuseppe Depetro elaborato una immagine per il cantiere del Teatro alla Scala. Stefano Arienti ha giocato con temi leonardeschi sull’abside delle Grazie e Botto e Bruno parlato delle periferie in un quartiere milanese votato al divertimento.

Il passo successivo è stato quello di trasformare tutto il volume del ponteggio in un’opera d’arte avvolgendolo con un pattern studiato ancora da artisti e designer: il grande volume di porta Garibaldi è stato inviluppato in una carta da parati di Francesco Simeti, la facciata delle Grazie dalle sofisticate immagini di Flavio Favelli e da ultia quella di Palazzo Reale dalle geometrie dello Studio Rota.
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Roberto Pinto, ricercatore di Storia dell’arte contemporanea, Università degli Studi di Trento
[expand title=”Importanza e criticità dell’arte negli spazi pubblici: due esempi nella città di Trento“][box]Roberto Pinto
Importanza e criticità dell’arte negli spazi pubblici: due esempi nella città di Trento

Negli ultimi anni si è spesso affrontato in modo contraddittorio e polemico l’apparire di interventi artistici negli spazi pubblici. A questo riguardo si sono organizzati convegni, mostre temporanee e sono stati commissionati da istituzioni alcuni lavori permanenti agli artisti, sempre suscitando forti reazioni di pubblico e dei media. Proprio a partire da due lavori realizzati per la città di Trento — uno temporaneo, l’altro permanente — cercherò di imbastire alcuni ragionamenti sull’importanza che l’arte assume nello spazio pubblico e, parallelamente, sottolineare la criticità che tali opere sollevano proprio per la loro collocazione.

In Trentino si è investito molto nel valore sociale dell’arte e nel ruolo pubblico delle istituzioni, basti pensare alla crescente importanza ricoperta dal MART a Rovereto e, anche se in misura minore, dalla Fondazione Galleria Civica di Trento. Tale attenzione alla cultura e all’arte ha coinvolto in alcuni casi anche lo spazio socialmente condiviso. Nel mio intervento prenderò come esempio per alcune riflessioni più generali, l’opera di Gillian Wearing Monumento alla famiglia, realizzato nella primavera del 2007 e commissionato all’artista inglese da Fabio Cavallucci allora direttore della Galleria Civica di Trento e l’intervento temporaneo di Lara Favaretto intorno al Monumento a Dante Alighieri, nel settembre del 2009, sempre sostenuto dalla Civica (appena trasformata in Fondazione), dal neodirettore Andrea Viliani.

Per realizzare il suo Monumento alla famiglia Gillian Wearing ha selezionato una famiglia, in rappresentanza del tipico nucleo familiare, attraverso un lungo processo che ha coinvolto la cittadinanza anche tramite televisioni e giornali locali. Dopo questo lungo “prologo” l’artista ha realizzato una scultura — fisicamente scolpita da maestranze cinesi su commissione dell’artista — in modo estremamente convenzionale e “realista” collocandola nei giardini antistanti la stazione ferroviaria. All’inaugurazione del monumento un piccolo drappello di cittadini trentini hanno inscenato una piccola e colorita protesta contro i valori espressi, secondo loro, dalla scultura.

L’opera di Lara Favaretto faceva parte di un progetto in più tappe, Momentary Monument, incentrato sulla possibilità di creare monumenti temporanei che potessero aiutare la comunità a preservare alcuni aspetti della memoria collettiva. Nonostante tale aspetto, legato alle tradizionali funzione del monumento e dell’arte negli spazi pubblici, gli organi di stampa, locali e nazionali, hanno parlato diffusamente di Momentary Monument 3 non per i suoi valori estetici o sociali, ma per essere stato al centro di polemiche e proteste provenienti da parte della cittadinanza.

L’installazione di Lara Favaretto, realizzata in occasione di una mostra diffusa su tutta la città, così come il precedente intervento di Gillian Wearing, credo siano degli esempi che ci permettono di indagare funzioni, possibilità e limiti degli interventi artistici all’interno di spazi socialmente condivisi. Opere che ci costringono a porci alcune domande che sono necessaria premessa a qualsiasi intervento artistico nelle piazze e nelle strade cittadine: qual è il ruolo dell’arte negli spazi pubblici? Che rapporto si deve instaurare tra l’opera d’arte e i cittadini? A quale pubblico si deve rivolgere? Quali sono i limiti degli interventi artistici? Questi sono solo alcuni degli interrogativi che l’arte pubblica ha sollevato nel corso degli anni con i suoi interventi, e  che le opere trentine hanno riportato per motivi diversi, al centro del dibattito.
[/box][/expand] A conclusione dei lavori:

Presentazione del progetto ART AROUND da parte di Matteo Balduzzi, curatore, Museo di Fotografia Contemporanea e Marie Le Mounier, artista e docente di fotografia, La Cambre, Bruxelles

Conversazione tra Beat Streuli e Roberta Valtorta, direttore scientifico del Museo di Fotografia Contemporanea

DOWNLOAD: PDF PROGRAMMA ARTE E PUBBLICO

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Con l’etichetta di arte pubblica, ormai tanto diffusa da risultare abusata, sono identificate opere, progetti ed esperienze molto diverse per natura, durata, modalità di coinvolgimento del vasto pubblico in operazioni di tipo artistico.
Nel corso degli ultimi vent’anni sempre più spesso istituzioni ed enti pubblici hanno fatto ricorso a progetti partecipativi non soltanto nell’ottica di sostenere e favorire la sperimentazione nella ricerca artistica ma anche nell’intento di creare operazioni innovative di comunicazione e di promozione delle istituzioni stesse e del territorio, alla ricerca di nuovi pubblici lontani dal sistema dell’arte.

Portare l’opera d’arte in luoghi inconsueti, diversi dalla gallerie e dai musei, e coinvolgere i cittadini nella costruzione di opere d’arte inedite e, nell’intenzione, innovative e socialmente significative fino a renderli, talvolta, autori e non più semplici fruitori, è spesso apparsa una soluzione innovativa e aperta per l’arte contemporanea oggi costretta a misurarsi sempre di più con una società massificata e dominata dai media e con un mercato sempre in cerca di nuovi sbocchi.

Dopo il susseguirsi di molti progetti, è oggi forse possibile guardare queste esperienze in una – seppur breve – prospettiva storica e al contempo, di fronte alla profonda crisi economica e culturale che mette in discussione la sopravvivenza stessa di musei ed istituzioni pubbliche, interrogarsi su quali siano i risultati, le ambiguità e le prospettive di una progettazione artistica aperta, ibrida e complessa.

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Il seminario è stato realizzato grazie al contributo dell’Associazione
Amici del Museo di Fotografia Contemporanea

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