CULTURA DOVE SEI?

ART AROUND, MEETINGS AND SEMINARS

Martedì 24 maggio si è svolto presso la Fondazione Pirelli il convegno 
CULTURA DOVE SEI?
I LUOGHI DELLA CULTURA NEL FLUSSO DEI CAMBIAMENTI ECONOMICI, SOCIALI E TECNOLOGICI

Interventi:

Guido Guerzoni, Docente di Management delle Istituzioni culturali, Università Luigi Bocconi, Milano
[expand title=”I modelli museologici degli ultimi vent’anni “][box]Guido Guerzoni
I modelli museologici degli ultimi vent’anni 


Negli ultimi vent’anni il dibattito museologico e museografico si è misurato con avvincenti sfide,  tentando di rispondere a nuove istanze; a titolo di esempio, è possibile interpretare, narrare e  rappresentare fenomeni storici che hanno coinvolto milioni di sconosciuti, figure ai margini dei  grandi avvenimenti, che sovente non hanno lasciato tracce significative del loro passaggio, né  materiale né documentale? Fino a quale estremo livello di astrazione è possibile spingere la  tematizzazione di un museo e di una mostra? Si possono realizzare musei ed eventi espositivi con  dotazioni modeste o nulle di reperti, talvolta neppure originali, lavorando su patrimoni  immateriali, editando supporti audiovisivi, creando installazioni sonore e olfattive, rielaborando le  informazioni raccolte da fonti disparate, accomunate dall’assenza di fisicità?
Le risposte fornite a queste domande sono state spesso positive, osservando gli esiti dei progetti  dedicati alle donne, l’infanzia, le migrazioni, le schiavitù, l’Olocausto, le guerre, il lavoro, le  colonizzazioni, le culture orali, le minoranze, la biodiversità e l’ambiente, i cambiamenti climatici, i diritti umani, la fantasia o la pace, senza dimenticare le sperimentazioni condotte nei science e  discovery center, nei children museum e in svariate mostre temporanee.
Queste esperienze comprovano la capacità di trattare felicemente anche grandi antiepopee, fatte  di voci corali, volti anonimi e movimenti collettivi – dove il memorabile non coincide con l’eroico, né lo storico con l’individuale – che necessitano di competenze e allestimenti affatto peculiari.
Infatti non è semplice sceneggiare narrazioni prive di protagonisti riconoscibili, riferimenti puntuali, tracce documentali e oggetti magnetici cui ancorare il percorso di visita, assicurandosi che rimangano emozionanti, coinvolgenti e persuasive senza perdere il rigore storico, l’onestà  intellettuale e il rispetto della deontologia professionale.
Ciononostante negli ultimi anni la museologia e la museografia sono riuscite con successo a  riportare al centro dell’attenzione temi e fenomeni la cui grandezza, talvolta tragica, è risultata  della somma di miriadi di vicende banali, vite modeste, oggetti insignificanti e moltitudini di  comprimari irriconoscibili, passati come gocce nel mare della grande storia. Si è trattato di un’attenzione in qualche misura risarcitoria, stimolata dagli orientamenti delle  nuove scienze sociali di ispirazione marxista prima e dei cultural studies poi, che, di là dai condizionamenti ideologici, hanno comunque aperto una discussione feconda, favorendo la
musealizzazione di temi e fenomeni ritenuti indegni di attenzione sino a pochi decenni or sono.
La museologia ottocentesca e novecentesca ha infatti celebrato le storie, le memorie e i lasciti dei vincitori, privilegiando avvenimenti isolati e personalità eminenti, civiltà evolute e opere insigni, in  una logica rappresentativa ufficialmente scientifica, fondata su oggetti visibili, cronologie chiare, giudizi certi e gerarchie immutabili, che hanno costituito i capisaldi delle tradizionali forme di allestimento, narrazione e rappresentazione museale.
D’altronde i musei hanno condiviso le predilezioni e le idiosincrasie delle discipline accademiche di riferimento, come giudici di ultima istanza e certificatori del valore culturale di opere e uomini, eventi storici e fenomeni sociali, fissando i canoni della trasmissibilità intergenerazionale; nella maggior parte dei casi ciò che veniva giudicato indegno di essere conservato, scompariva, spesso per sempre, dagli orizzonti della conoscenza e della memoria.
Ma negli ultimi decenni è cambiato il modo di percepire il cambiamento e di cogliere il senso e la profondità della storia; viviamo in un iper-presente che ci sfugge e gli oggetti che le memorie collettive vorrebbero tramandare appartengono a un passato sempre più vicino e sempre meno condiviso. Parallelamente sono caduti gli steccati che dividevano culture alte e basse, gusti elitari e popolari, originali e riproduzioni, oggetti analogici e digitali, in un processo che ha comportato la
revisione di principi espositivi vigenti da secoli.
Questa situazione ha convinto, talvolta costretto, i musei e le istituzioni culturali a occuparsi di epoche, collezioni e tematiche a ridosso della quotidianità, fornendo strumenti interpretativi che non hanno la pretesa o il coraggio di fornire giudizi duraturi e offrire letture univoche. Non sono più fondamentali i singoli oggetti e la loro collocazione all’interno di sistemi classificatori rigidi, ma l’inserimento in contesti narrativi aperti, che non forniscono una lettura canonica, ma
suggeriscono interpretazioni differenti.
Il visitatore, da destinatario passivo dei verbi disciplinari, è diventato un soggetto attivo, da sedurre e conquistare, lasciandogli una libertà di scelta e, in qualche misura, una parola che non è mai l’ultima.
Per questa ragione non viene privilegiato solo il senso della vista; noi scopriamo e interagiamo con tutti i sensi, ragion per cui le istituzioni museali di nuova generazione, soprattutto quelle prive di capolavori e oggetti eccezionali, producono esperienze, emozioni e sensazioni e forniscono informazioni e conoscenze in formati diversi da quelli precedenti.
Questa dimensione conoscitiva può applicarsi, a fortiori, su temi che in passato non erano nemmeno concepibili: non è un caso che a partire dagli anni settanta, in coincidenza con la proliferazione degli studi sugli sconfitti, i devianti, le culture popolari e i ceti svantaggiati, su ciò e chi si collocava ai margini del selettivo cono di attenzione dell’alta cultura otto-novecentesca, si siano moltiplicati gli sforzi per recuperare il tempo perduto e porre sotto i riflettori museali quanto e quanti erano rimasti per secoli e secoli nell’ombra o al buio: milioni di oggetti e individui, senza autori o provenienze, ma ciononostante protagonisti di grandi vicende.

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Silvia Bottiroli, critico e curatore di spettacolo contemporaneo / coordinamento critico  organizzativo di Santarcangelo 2009/2011
[expand title=”Forme alternative di esperienza “][box]Silvia Bottiroli
Forme alternative di esperienza

“Un’istituzione sarà un luogo piacevole e comodo progettato perché le persone  possano lavorare (con computer portatili), mangiare, bere e occasionalmente dormire.
Il personale, gli artisti e il pubblico si scambieranno spesso di ruolo”.

Dora Garcia

 “Le istituzioni artistiche dovranno fare dei veri sforzi per affrontare un problema che hanno troppo spesso ignorato nel secolo scorso: la velocità allarmante a cui l’idea stessa di sfera pubblica sta evaporando. Visto che gli spazi per la comunità pubblica sono sostituiti dai rituali quotidiani, spesso indeboliti e generalmente insignificanti, della vita del consumatore, le istituzioni artistiche devono non solo riconoscere la loro stessa colpevolezza rispetto alla caduta dell’arte nel commercio, ma anche impegnarsi nel presentare e giustapporre diversi progetti artistici che (senza essere pedanti o prescrittivi) offrano ai visitatori delle forme alternative di esperienza e degli strumenti critici per comprendere il mondo in cui viviamo”.

Candice Breitz

Lo spettacolo dal vivo, come  ogni attività umana che implica la compresenza di diversi soggetti, ha la caratteristica di creare luoghi, di disegnare cioè il proprio luogo all’interno di uno spazio dato. Portare l’attenzione su “cambiamenti, crisi, potenzialità” dei luoghi della cultura, rispetto al teatro e più in generale alle forme di spettacolo dal vivo, significa allora riflettere sulle caratteristiche sostanziali delle modalità di produzione oltre che di fruizione di questa forma d’arte  – o meglio rendersi conto che questi due aspetti non sono mai disgiunti, perché non si dà teatro senza la compresenza di un pubblico, o meglio di una comunità.
Il teatro è arte politica per eccellenza, come hanno affermato a più riprese diversi filosofi occidentali, sino almeno a Hannah Arendt che in Vita activa scrive che “solo  in esso la sfera politica della vita umana è trasposta nell’arte. E così pure è l’unica arte che ha come solo soggetto l’uomo nelle sue relazioni con gli altri uomini”.
Credo sia oggi più che mai importante riflettere, da parte degli artisti di teatro ma  anche dei teorici e delle istituzioni che operano nello spettacolo dal vivo, su che cosa  significhi, nel quadro socio-culturale attuale, assumersi pienamente e anzi rilanciare la vocazione politica del teatro, e cioè la vocazione a essere in relazione con i “molti”  (i  polis appunto), con le diverse sfaccettature della collettività umana, e occuparsi  delle “relazioni dell’uomo con gli altri uomini”. Da diverse parti emerge una  rinnovata attenzione della scena contemporanea – almeno in certe sue forme, quelle non legate al consumo ma alla produzione di senso e alla sua discussione critica – a dare chiavi di accesso all’esperienza estetica anziché limitarsi a proporre un cartellone di spettacoli, come pure capita spesso nei teatri e nei festival anche maggiori, così desolatamente simili a se stessi in tutta Europa.
Penso ad alcuni esempi, quali i Laboratoires d’Aubervilliers e il PAF – Performing Arts  Forum in Francia, che mi sembrano paradigmatici in questo senso: si tratta di due  esperienze di certo minoritarie nella geografia dello spettacolo, eppure è proprio da  certe minoranze, quelle che Goffredo Fofi ha indicato come “minoranze etiche” che  stanno maturando segni significativi di cambiamento, modelli di pensiero e di gestione, buone pratiche, consapevolezze e inquietudini che riguardano la dimensione sociale oltre che culturale delle arti arti e di altre pratiche quali quella  pedagogica e quella sociale, che sono forse, insieme alla cultura, le discipline  a cui affidare un cambiamento necessario.
I Laboratoires d’Aubervilliers, situati alla periferia nord di Parigi, si fondano  affrontano programmaticamente ogni progetto artistico come una “occasione di un  rinnovamento e di una critica delle modalità conosciute di produzione e dei modi di  lavoro e di relazione con il pubblico che ne derivano. Ogni progetto si rivolge al  pubblico attraverso i formati prodotti nel corso del processo di ricerca, ad esempio: performance, conferenze, mostre, proiezioni, concerti,  pasti etc. Il pubblico si  costituisce a partire dall’oggetto della ricerca e secondo il tipo di partecipazione che  esso implica. Ogni partecipazione determina il carattere collettivo delle ricerche, attraverso la natura dei saperi e delle pratiche messi in comune e il modo in cui  questa attività si organizza”
La struttura è guidata da un collettivo di tre curatori (Grégory Castéra, Alice Chauchat, Nataša Petrešin-Bachelez) ed è retta da un  consiglio di amministrazione di cui fanno parte alcuni tra i maggiori coreografi  francesi contemporanei, quali Xavier Le Roy e Loïc Touzé. Quest’istituzione è quindi  uno strumento di lavoro creato da artisti per artisti, che afferma fortemente una dimensione collettiva come modalità di ideazione e produzione dei suoi progetti, che mescola programmaticamente il piano politico e quello artistico e che si pone in  reazione con un contesto molto specifico, quello della periferia parigina appunto, e  con una comunità composita, fatta da artisti, studenti e critici ma anche di cittadini
di Aubervilliers che attraverso alcuni tipi di attività e di proposte hanno imparato a  riconoscere i Laboratoires come un luogo che appartiene anche loro.
Una modalità di lavoro così radicale costituisce un ottimo antidoto, credo, al rischio  di una retorica della “creatività”, richiamando a ragionare invece in termini di  “creazione”, come propone David Inglis in un suo intervento recente, in cui discute  severamente la “colonizzazione”  – così lui scrive  – che i termini “creatività” e  “innovazione” hanno operato nel dibattito sulle arti e il loro rapporto con la sfera economica e politica.
Il  PAF  – Performing Arts Forum , sito in un minuscolo villaggio rurale della  Champagne, è un luogo di residenze creato da un artista olandese, Jan Ritsema, in un antico convento femminile. Qui artisti, teorici e curatori vi trovano spazi individuali e  comuni in cui studiare, lavorare e confrontarsi secondo alcuni princìpi che  rispondono a una visione etica ed economica precisa: i costi sono molto modesti, si  accede in base al numero di stanze disponibili senza presentare alcuna application, e  tutte le risorse sono accessibili, dai libri della biblioteca alle attrezzatura tecniche.
Per tutto ciò che riguarda la vita comune – pasti, cura del luogo – vige la regola che  “chi fa, decide”: l’unico modo per poter prendere decisioni è assumersi  concretamente l’impegno del fare, secondo una modalità elementare che pure  suona terribilmente rivoluzionaria. Nell’ingresso vi è una vecchia lavagna da scuola, in cui vengono scritte giorno per giorno le attività “pubbliche”, quelle cioè a cui si  vogliono invitare gli altri residenti (prove aperte, visioni di film, incontri, discussioni…); regolarmente vengono organizzate attività rivolte anche ai cittadini di St Erme, ad esempio la “Public School” in cui chiunque può proporre argomenti o “materie” che è disponibile a insegnare o che vorrebbe imparare, e in modo partecipato si sceglie anno per anno quali “classi” far partire e come organizzare le lezioni, gratuite e aperte a tutti.
Questi e altri luoghi, fisici e di pensiero, delineano un paesaggio che andrebbe meglio indagato, per la sua capacità di tenere conto delle esigenze dei diversi “attori” coinvolti, gli artisti e gli spettatori in particolare, pensati entrambi come identità plurali e, soprattutto, come  cittadini. Vale a dire soggetto e non oggetto di una politica culturale, di una proposta artistica, di una modalità di lavoro.
È nella consapevolezza e nella capacità di interrogare i rapporti tra uomini e di proporre nuovi modelli di convivenza sociale che il teatro trova la sua pienezza. Può dirsi contemporaneo quindi quel teatro che sa inventare istituzioni irriconoscibili e riformularle costantemente in base alle esigenze degli artisti, e che fonda la sua relazione con gli spettatori sulla condivisione in termini di proposta e di partecipazione del suo luogo, attraverso una pratica artistica che abita lo spazio. Queste pratiche portano con sé una riflessione sulla  cittadinanza, su che cosa  significhi essere cittadini di un paese, di uno spazio culturale, di un progetto, e di  questa riflessione c’è terribilmente bisogno.
Un invito a spettatori e artisti a essere cittadini, cioè a farsi autori di una questione  collettiva, lo ha rivolto anche il Festival di Santarcangelo nell’ambito di un progetto triennale che si è articolato tra il 2009 e il 2011 sotto la direzione artistica di Chiara Guidi/Socìetas Raffaello Sanzio, Enrico Casagrande/Motus e Ermanna Montanari/Teatro delle Albe.
Il Festival di Santarcangelo è senza dubbio una delle esperienze più importanti nella geografia dello spettacolo contemporaneo in Italia: fondato nel 1971, ha dato voce ai grandi fenomeni del teatro dagli anni Settanta a oggi, talvolta anticipandoli e sostenendoli sul nascere, e ha formato, in platea e sul palco, gli artisti maggiori delle ultime generazioni, ma anche moltissimi critici, studiosi, organizzatori. È un luogo in cui si incrociano gli sguardi, si producono e si presentano spettacoli  – peraltro con risorse molto ridotte e grazie a un vero senso di  militanza degli artisti  – ma si costruiscono anche contesti di dialogo, di riflessione, di scrittura. Con questo triennio il festival è stato consegnato tre gruppi molto riconosciuti a livello internazionale, ma tutti basati in Romagna, tre gruppi cioè che hanno costruito una sapienza artistica, tecnica e organizzativa e che l’hanno messa al servizio di un territorio. Accanto a loro, tre figure riunite in un “coordinamento critico-organizzativo”, di cui faccio parte con Rodolfo Sacchettini e Cristina Ventrucci: un nucleo collettivo di teorici-organizzatori, chiamati ad affiancare la direzione artistica nella programmazione, a costituire e dirigere il gruppo di lavoro del festival, e soprattutto a nutrire, tra un’edizione e l’altra, un terreno culturale e politico comune, affinché ogni artista possa permettersi un affondo verticale in una sua visionarietà, ma il suo fare si fondi su una direzione culturale unitaria e riconoscibile.
Santarcangelo 2009/2011 ha posto alcune questioni che restano tuttora aperte e che interrogano quella possibilità di proporre “forme alternative di esperienza” tanto alle istituzioni culturali e alle loro pratiche, quanto ai pubblici che le attraversano. Due aspetti in particolare mi paiono rilevanti. Il primo è l’utopia di una pluralità, una coralità anzi, affermata programmaticamente come necessaria e come impossibile. La coralità di artisti diversi innanzitutto, chiamati a una responsabilità pubblica condivisa nell’assunzione della direzione del festival, e la coralità tra artisti, critici e organizzatori, orientata dalla visione artistica assunta come paradigma di una tensione a operare in termini di creazione permanente, ideando cioè scenari teorici e modalità produttive. Si mette in gioco qui, o almeno si tenta, una funzione critica intesa nel senso in cui Irit Rogoff scrive della “criticality”: una qualità “connessa con il rischio, [capace di] fissare l’attenzione su ciò che necessita di essere pensato piuttosto che discutere ciò che è già stato pensato”. Credo vi sia un autentico slancio morale nell’affermare la necessità di ripensare per intero gli scenari e i perimetri concettuali e concreti in cui operiamo, come pure nel porre la questione della coralità, intesa  – sia chiaro  – non come uniformità di giudizio ma come intonazione di voci diverse, individuali, e ricerca inesausta di quell’equilibrio così difficile e meraviglioso dei momenti in cui soggettività e collettività si incontrano in una creazione. A proposito delle manifestazioni studentesche dello scorso inverno una giovane donna ha scritto, in una lettera aperta a un quotidiano, che in quelle giornate, prima dell’intervento delle forze armate, in piazza si era vista una “felicità pubblica”. È una parola così abusata, “felicità”, eppure così eretica in quest’epoca infelice, che forse dovremmo proprio riappropriarcene, rivendicandone il carattere collettivo, il suo essere bene comune.
L’altra questione in gioco a Santarcangelo è il rapporto con la città e con i cittadini, riaffermato già con il recupero del  titolo originario di “festival internazionale del teatro in piazza” e sperimentato poi  attraverso interventi  che hanno tenuto contoanche di una specificità di Santarcangelo,  quella di ospitare da decenni un festival con decine di spettacoli senza avere neanche un teatro.  Nella prospettiva di un rinnovato rapporto con la città vanno letti i progetti pensati per le case private, in cui si è chiesto agli abitanti di ospitare il lavoro di alcuni artisti e di accogliere piccoli gruppi di spettatori;  la regia di eventi  di piazza  – dal concerto di Arto Lindsay su cinque torri, all’azione pubblica del collettivo israeliano Public Movement… – e pure vere e proprie “chiamate pubbliche” ai cittadini di ogni età, invitati ad accogliere orti domestici o a formare, quest’anno, cori occasionali. Tra questi, nell’edizione diretta nel 2011 da Ermanna Montanari, il “Coro doppio” ideato da Dario Giovannini, in cui diversi cittadini di Santarcangelo, italiani e stranieri, si sono ritrovati a mettere in canto il loro punto di vista su  diversi aspetti della vita politica del paese, componendo per ogni tema due gruppi giustapposti, che cantano ragioni di accordo o di disaccordo con un’idea, e rimescolandosi per ogni canzone, spostandosi dall’una all’altra parte a seconda della loro posizione sui diversi argomenti affrontati.
Credo sia un’immagine molto potente, questa di un coro “doppio”, cioè dialettico, di cittadini che insieme prendono la parola nello spazio pubblico di una piazza, attraverso l’invenzione di un artista e la costanza di una pratica maturata nel tempo, e che danno vita così a una comunità occasionale, estemporanea, riunita nel canto e sempre mobile al suo interno, a ricordarci che “cittadino” è una parola  declinata sempre al plurale.

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Carlo Fuortes, Amministratore Delegato Fondazione Musica per Roma
[expand title=”Lo spettacolo dal vivo e la cultura contemporanea.
L’esperienza dell’Auditorium Parco della Musica di Roma“][box]Carlo Fuortes
Lo spettacolo dal vivo e la cultura contemporanea.
L’esperienza dell’Auditorium Parco della Musica di Roma

A otto anni dalla sua nascita l’Auditorium Parco della Musica di Roma è arrivato a essere il complesso musicale e di spettacolo dal vivo più grande d’Europa con il maggior numero di spettacoli e concerti (1.190 nel 2010) e di spettatori (1.050.844 sempre nel 2010). La missione dell’Auditorium è stata dall’inizio quella di creare a Roma un luogo permanente dove far vivere i diversi generi artistici e culturali internazionali non solo musicali e non solo riferiti alla cosiddetta “musica colta”. Dove qualunque cittadino e turista romano possa avvicinarsi a tutto quello che viene prodotto nel  mondo nel settore delle arti e dello spettacolo dal vivo.
Per troppo tempo Roma ha principalmente guardato al suo passato. Al suo straordinario patrimonio culturale con il quale è oggettivamente difficile “competere”, forse dimenticando che non è possibile vivere senza guardare con attenzione e criticità al presente e, principalmente, al futuro e ai nuovi generi e linguaggi culturali.
Com’è stato possibile raggiungere questo obiettivo in così poco tempo? Per quattro principali motivi. Li vorrei illustrare brevemente perché credo costituiscano un’importante “lezione dell’esperienza” per la gestione di un luogo di spettacolo e cultura agli inizi del terzo millennio.
1 Lo spazio della cultura. Il luogo e l’architettura
Posso senz’altro affermare che uno dei principali punti di forza deriva dal complesso architettonico disegnato da Renzo Piano. L’auditorium è stato il primo segno di rilievo di architettura contemporanea costruito a Roma, forse dopo la costruzione dell’EUR. Per questo ha avuto da subito uno straordinario valore simbolico nella città.
Il sistema degli spazi della cultura è stato uno dei principali fattori che ha caratterizzato negli ultimi trenta anni lo sviluppo dei beni e delle attività culturali nei paesi occidentali. A partire dalla metà degli anni settanta, e simbolicamente dalla realizzazione del  Centre Pompidou a Parigi nel 1977, il nuovo spazio culturale è diventato il luogo di riconoscimento e di rinascita di una città e della collettività che la abita.
Ma in questi anni, lo spazio culturale ha totalmente modificato la sua fisionomia e la sua funzionalità in ragione di una modalità di fruizione del tutto nuova rispetto al passato. Tutto questo ha inciso in modo sostanziale sui caratteri di offerta culturale e di domanda, manageriali, organizzativi, comunicazionali, economici e finanziari trasformando la stessa idea di museo, di centro espositivo, di auditorium o di teatro del passato. Gli spazi per la cultura hanno sempre segnato e caratterizzato la fisionomia di una città, anche se nelle varie epoche ci sono stati altri segni urbani più determinanti: si pensi, ad esempio, al ruolo svolto dall’antichità a tutto l’ottocento dagli edifici religiosi. Nel ventesimo secolo, con la laicizzazione dei principali stati europei, i simboli identitari delle città e delle nuove funzioni che queste assumono, con i fortissimi processi di urbanizzazione, si spostano sempre più nei luoghi culturali.
Questa tendenza aumenta ancora negli ultimi trent’anni del secolo scorso a causa della forte crescita della domanda culturale, derivante dal notevole aumento dei livelli d’istruzione e di benessere economico dei cittadini e, non ultimo, dall’esplosione dei movimenti turistici internazionali. La frequentazione dei nuovi spazi culturali, grazie alle molte e varie attività che in essi si svolgono e quindi alle molte occasioni di visita, rafforza il senso di appartenenza di un cittadino verso la sua città e quindi i nuovi spazi culturali, più di quelli del passato, spesso solo “monumenti di se stessi”, riescono  in molti casi a interpretare le nuove identità di una città. Gli spazi della cultura diventano i principali luoghi da visitare delle città d’arte europee e internazionali, vere e proprie “cattedrali” verso le quali fare “pellegrinaggi laici”.
La centralità degli spazi culturali è coincisa con la diffusione di nuovi bisogni e la nascita di un consumatore culturale “nuovo”, che intende il suo tempo libero non solo come pura evasione o svago ma come ricerca di nuovi stimoli culturali e di conoscenza, che frequenta lo spazio culturale non solo e non tanto per assistere ad uno spettacolo o vedere una mostra ma per “essere” nello spazio architettonico, nel quale socializzare e comunicare, goderne le bellezze, comprare un libro o un disco, o semplicemente prendere un caffé. Marc Augè sostiene che sempre di più nella nostra società l’esigenza di
socializzazione della collettività, una volta superata l’”agorà virtuale” rappresentata dalla televisione, si sposta dalla piazza in questi luoghi d’identità delle città.
Il museo, l’auditorium o il teatro diventano così luoghi d’incontro, di svago, di consumo, di informazione e apprendimento, assumendo, quindi, tratti e funzioni del tutto nuovi rispetto al passato. Lo spazio diviene così piazza, bar, addirittura centro commerciale, oltre che ovviamente teatro, cinema, museo e ogni altra offerta culturale sia presente.
Diviene, in altre parole, luogo per eccellenza di  serendipity, nel quale si può trovare molto altro e di più rispetto a quello che vi si era andati a cercare. Questa nuova funzione sociale dello spazio culturale necessita evidentemente di aree e servizi ad hoc, molto differenti da quelli “canonici”  che l’architettura fino a ieri aveva previsto. Da qui la necessità di un profondo ripensamento dell’idea stessa di spazio culturale e delle funzionalità e delle destinazioni che esso deve assolvere.
Il Parco della Musica è tutto questo. Un complesso molto grande, di più di 90.000 mq. Dotato di tre grandi sale per concerti e teatro, un grande teatro all’aperto – la “cavea” – un teatro studio, quattro sale prova più moltissimi spazi di servizio, La concezione funzionale degli spazi, dopo l’esame di sei anni di gestione, si può definire straordinaria. Lo spazio pur se fortemente unitario dal punto di vista architettonico consente lo svolgersi di molti eventi contemporaneamente e di garantire quella molteplicità di funzioni indispensabili allo spazio culturale del terzo millennio.
2 La programmazione. “Portare in scena” la cultura contemporanea 
Se fondamentale è lo “spazio” dove rappresentare e vivere lo spettacolo dal vivo forse ancor più importante, nella società attuale, è il contenuto che si rappresenta in questo spazio. E non c’è dubbio che le grandi istituzioni di spettacolo (i teatri di prosa, i teatri dell’opera, le istituzioni concertistiche) del nostro Paese – e in larghissima parte nei paesi occidentali  – siano rimaste ancorate agli ambiti tradizionali del fare cultura e spettacolo. La società cambia e le istituzioni culturali ripetono quasi sempre una formula che rimanda a un “rito ottocentesco” per pochi eletti.
Ancora oggi dopo un intero secolo di cambiamenti, i programmi delle istituzioni culturali si basano sul teatro di prosa, la musica classica, l’opera e la danza classica. Al contrario, in un mondo che cambia cosi velocemente, credo che anche
lo spettacolo dal vivo debba ripensare le forme e i generi da rappresentare. Deve essere in grado di “portare in scena” i profondi cambiamenti subiti dalle società dei nostri Paesi.
L’esperienza che abbiamo condotto all’Auditorium di Roma è stata di allargare l’offerta a generi e forme culturali che “rappresentano” la cultura del nostro tempo. Il linguaggio contemporaneo travalica i rigidi confini dei generi artistici, e
così oltre la musica classica di una delle più antiche e nobili istituzione musicale del mondo, l’Accademia di S. Cecilia, nella nostra programmazione “ordinaria” trovano un grande spazio: il Jazz  – che in Italia trova un humus artistico particolarmente fertile, la musica pop e quella rock  – che hanno rappresentato il fenomeno culturale più importante della seconda parte del novecento, e ancora la musica popolare e la world music – impossibile da trascurare in un mondo sempre
più multiculturale.
E dal 2006, con grandissimo successo, la Festa del Cinema che nasce non come vetrina e ribalta dei nuovi film ma dall’idea che sia possibile fare incontrare il grande pubblico con i protagonisti del cinema e di trasformare anche questo in uno spettacolo.  Abbiamo scoperto l’esistenza di platee sensibili e numerose, disponibili a muoversi per incontrare i protagonisti del cinema che amano e sentirli parlare del loro lavoro, del rapporto tra questo e la loro vita e anche, alla fine, aver la possibilità di dialogare con essi.
Ma anche il “teatro di parola” – come lo definiva Pasolini, la danza contemporanea e il nuovo circo  – che mescolando molti linguaggi riesce in molti casi a rappresentare meglio di molte altre forme artistiche la complessità del mondo di
oggi. E anche la letteratura, la poesia e le arti figurative.Ma l’aspetto forse più innovativo e significativo  – anche nel panorama internazionale  – è stato l’allargamento  dei confini della programmazione dallo spettacolo in senso proprio alla cultura in generale.
Dal 2006, con il primo festival delle scienze e il primo ciclo di “Lezioni di Storia”, il cartellone dell’Auditorium comprende con regolarità festival, lezioni, incontri e conferenze sulla matematica e l’etica, sul giornalismo e la storia della musica, la
storia dell’arte e i libri. E tutto questo non in piccole aule accademiche, ma nelle grandi sale da centinaia e in alcuni casi migliaia di posti.
L’auditorium è diventato il luogo della contemporaneità. Ma principalmente credo sia un originale esperimento di cosa significhi fare cultura oggi in una grande  città.
3 Nuova domanda e nuovi bisogni. La nascita di un consumatore culturale nuovo
Il vero fattore determinante nell’attività di una istituzione culturale, però, è il rapporto con il suo pubblico. E forse il dato più interessante di questa esperienza è stato la risposta del pubblico.
Molti, all’inizio dell’attività, temevano che l’Auditorium corresse il rischio di “mangiarsi” tutti gli spettatori della città a danno delle altri istituzioni già operanti. Cosi non è stato. Perché non bisogna mai dimenticare che la domanda di cultura si sviluppa in presenza di un’offerta stimolante. La cultura non è un bene primario a domanda rigida. Al contrario, questa è molto elastica: diventa latente in assenza di proposte d’interesse, si manifesta e aumenta se queste diventano attraenti.
Le statistiche dicono che, negli ultimi anni a Roma, il numero di spettatori della città è aumentato in misura maggiore di quello dell’Auditorium. Non c’è stato un effetto di sostituzione, ma bensì di moltiplicazione.
Per fare  questo, si è dovuto lavorare sulla capacità di attrazione di nuovo pubblico. E per questo si sono estesi i confini dell’offerta culturale. Infatti, il consumo di un servizio culturale – la visita a una mostra o un museo, l’ascolto di un’opera o un concerto – ha bisogno dell’uso di una parte del nostro tempo, che è un bene molto scarso nella nostra vita. Sembra un’osservazione pleonastica, ma così non è. E’ anzi il fattore che più differenzia il settore culturale dal mercato più generale: il consumatore dei  servizi culturali (musica, teatro, opera danza, musei, mostre, ecc.) non può avere un comportamento “consumistico”. Al contrario di quanto avviene normalmente nella nostra società, non può, in altre parole, acquistare più di quanto consuma.
Ognuno di noi acquista molte più scarpe o vestiti di quelli che “consuma”, più libri di quelli che riesce a leggere (si rifletta sullo straripante successo della vendita di libri in edicola, non si sa in che percentuale trasformata in vera lettura), ma non
può comprare più biglietti di concerto, teatro o museo di quelli che effettivamente riuscirà a consumare. L’uso esclusivo del tempo individuale di questi servizi comporta, quindi, una grande competizione con qualsiasi uso del tempo libero, anche non culturale. Per aumentare i consumi culturali di una città si devono convincere cittadini e turisti a impegnare una maggior parte del loro tempo giornaliero nei musei, teatri, sale di concerto o cinema, piuttosto che dedicarlo al ristorante, al centro commerciale, allo stadio, alla televisione o, addirittura, al riposo. Altrimenti la nuova offerta non produrrà consumi culturali addizionali, ma solo effetti sostitutivi tra questo o quel concerto, tra questa o quella mostra. E si trasformerà in un
“gioco a somma zero”.Da questo punto di vista, l’obiettivo raggiunto in questi anni in Auditorium è stato di rendere l’offerta culturale proposta attraente e “competitiva” per un numero sempre maggiore di cittadini e di turisti.
4 La governance e l’autofinanziamento
Il quarto fattore, ma non per importanza, è stato il modello di  governance adottato e i risultati economico-finanziari raggiunti. L’Auditorium Parco della Musica è gestito dalla Fondazione Musica per Roma, che è un soggetto autonomo
i diritto privato, i cui soci fondatori sono il Comune di Roma, la Camera di Commercio di Roma, la Provincia di Roma e la Regione Lazio. E’ la fondazione culturale più capitalizzata del Paese. Attualmente il fondo di dotazione della Fondazione è superiore ai trenta milioni di euro. Nel processo di nascita e sviluppo della Fondazione una parte determinante, e del
tutto innovativa, è stata svolta dalla Camera di Commercio di Roma che ha scommesso sull’Auditorium quale fattore di sviluppo e innovazione della città, non solo sul piano culturale ma, collegato a questo, su quello economico, sociale e turistico. E’ stato il primo caso italiano nel quale il sistema imprenditoriale di una città si è fatto carico, in queste dimensioni, degli oneri dell’offerta culturale cittadina, normalmente sulle spalle dell’amministrazione pubblica. Ed è stata una scommessa vinta, se si considera il contributo che l’Auditorium ha dato allo sviluppo economico e turistico della città, molto superiore in questi ultimi anni a quello medio nazionale.
Una delle chiavi principali che hanno garantito i risultati descritti è senz’altro ascrivibile all’alto grado di autofinanziamento raggiunto, pari nel 2010 al 67% del budget totale. Questo valore non è riscontrabile in nessuna grande istituzione culturale a livello europeo ed è stato ottenuto attraverso una forte diversificazione finanziaria di ricavi propri: biglietti e abbonamenti,  cards, sponsor, servizi congressuali, servizi di ristorazione, libreria e merchandising e i redditi dal fondo di dotazione.
Per un’istituzione culturale, l’autonomia finanziaria è sinonimo di autonomia culturale. Un elevato grado di indipendenza dal finanziamento pubblico consente, infatti, una programmazione pluriennale non condizionata dalle fluttuazioni della
finanza pubblica, grande libertà di azione nella scelte artistiche e nelle politiche di prezzo e di servizio e, infine, una elevata responsabilizzazione sui risultati dell’istituzione stessa.
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Giuseppe Strazzeri, Direttore Editoriale Longanesi Editore
[expand title=”Librerie e nuovi luoghi del libro“][box]Giuseppe Strazzeri
Librerie e nuovi luoghi del libro

Giuseppe Strazzeri Direttore Editoriale Longanesi Editore Librerie e nuovi luoghi del libro Ho accolto come una felice provocazione il fatto di essere stato invitato a parlare di biblioteche non essendo un bibliotecario bensì un editore che in quanto tale ha una visione dell’oggetto libro, come dello spazio che lo concerne, inevitabilmente differente rispetto all’archivista. In altre parole, quando un editore pensa a uno spazio della lettura, pensa alla libreria e assai più di rado alla biblioteca. Questo invito insomma non ha fatto che rimarcare un dato tanto stridente quanto pacificato all’interno dell’ambito in cui io opero, che è poi quello dell’editoria generalista (di contro a quella di settore, sia essa di reference o scolastica), ossia la sostanziale mancanza di dialogo e interazione tra una visione archivistico-conservativa del libro e una editoriale, o in altre parole commerciale. Senza entrare nello specifico delle valutazioni di merito (e demerito) dell’uno o dell’altro approccio, resta il fatto che due entità che pur nella diversità di intenti dovrebbero avere ugualmente a cuore la promozione della lettura presso la collettività, assai di rado dimostrano di essere consapevoli l’una dell’altra. In realtà, se con uno sforzo accomunante magari audace ma non del tutto improprio volessimo limitarci a ragionare sugli spazi deputati alla lettura, siano essi pubblici o commerciali, non potremmo che constatare prima di tutto, una volta di più, che tale tema è strettamente legato a quello dei profondi squilibri territoriali italiani. Si tratta di una questione in realtà assai antica, non a caso ponderata e affrontata in modi geniali e radicalmente diversi, nel secondo Novecento, da due grandi protagonisti dell’editoria quali furono Giangiacomo Feltrinelli e Arnoldo Mondadori. La prima libreria Feltrinelli, giova forse ricordarlo, apre a Pisa nel 1957, cui ben presto seguono quelle di Milano (1957 e 1959), Genova (1959) Firenze (1962) e Roma (1964). Il design modernissimo, con tanto di scale mobili e percorso “guidato” con indicazioni chiarificatrici per la localizzazione del prodotto, si univano al rivoluzionario concetto della vendita a libero servizio, e addirittura all’inserimento nello spazio libreria di oggetti ludici quali il flipper e il juke-box: tutto si ispirava, nella concezione feltrinelliana, a concetti di gioventù e modernità cui era bello aspirare anche acquistando un libro. Radicalmente opposto l’approccio di Mondadori, che, a fronte dell’endemica carenza di punti vendita librari in Italia, decide di rompere un tabù creando con gli Oscar, nel 1965 la prima collana libraria tascabile che sfrutta con grande successo (Addio alle armi di Ernst Hemingway, primo Oscar a vedere la luce, vende 60.000 copie in un giorno) l’assai più capillare canale dell’edicola, esperienza bissata dai “Miti” a trent’anni di distanza, grazie all’utilizzo sistematico del canale della grande distribuzione con prezzatura adeguata al mass market. Le librerie oggi in Italia sono circa duemila (a fronte delle 38.000 edicole, rete che anche dopo gli Oscar ha spesso supplito alla scarsità di punti vendita e alle carenze distributive). E se si guarda a questo dato numerico raffrontandolo al fattore distributivo sul territorio, tocca constatare che ancora oggi la parte del leone la fa un nord Italia che da solo accoglie più di metà di tali punti vendita. Non molto differente appare del resto a quanto mi consta la situazione delle biblioteche che, pur ammontando grosso modo a 15.000 (parliamo perlomeno di quelle censite dal Sistema Bibliotecario Nazionale), sembrano patire del medesimo squilibrio territoriale cui si accennava sia per quanto riguarda la loro distribuzione sul territorio nazionale sia, dato ancora più preoccupante, per ciò che attiene la scarsa utenza. Tornando alle librerie, può apparire particolarmente allarmante il fatto che tra il 2009 e il 2011 abbiano chiuso i battenti circa duecentocinquanta librerie indipendenti. Il dato, in sé indubbiamente preoccupante, è in realtà “corretto” dalle novecentocinquanta circa cosiddette “librerie di catena” presenti sul territorio, il cui circuito più rappresentativo è costituito com’è noto dalle librerie Feltrinelli (59 al Nord, 26 al centro, 18 nel sud e nelle isole), seguite dalle librerie Giunti-Ubik (180 circa di cui una ventina al sud), dalle Mondadori (27 le librerie Mondadori più oltre 250 punti vendita in franchising), dalle Paoline (48, di cui 18 al sud , 21 al nord, e 7 nel centro), dalle Edison (37, di cui una sola sotto Roma), dalle Coop (24, di cui una in Abruzzo e una in Campania), dalle Elledici (27 con i franchising, di cui 8 al sud, 7 nel centro e 13 al nord), e infine dalle Fnac (8, di cui una a Napoli). Se si pone mente al fatto che questa tipologia di libreria ammontava nel 2007 a soli 324 punti vendita, si intuisce chiaramente un mutamento di scenario che da alcuni potrà essere guardato con sospetto, ma che sembra riflettere con una certa fedeltà un mutamento epocale nelle abitudini della lettura degli italiani. E non sarà certo un caso che in questa zona del nord Milano dove ci troviamo in questo momento il punto vendita librario più vicino sia una libreria Feltrinelli all’interno del centro commerciale Sarca. Che la libreria insomma sia tristemente destinata ad assumere la fisionomia del grande spazio commerciale di massa all’interno dei luoghi deputati al largo consumo? In realtà in un certo senso ci sarebbe da sperarlo, se ciò significasse l’ingresso stabile del libro nei consumi abituali degli italiani. Se tuttavia i nostalgici, e non sono pochi, delle vecchie librerie indipendenti vedono con sfavore la diffusione di questi “mediastore” (dicitura con cui spesso queste “nuove librerie” vengono battezzate), viene da chiedersi in realtà che cosa l’espressione “spazio della lettura” potrà significare in un’epoca, ormai assai vicina, in cui il libro, grazie alla digitalizzazione, sarà realmente pronto a “smaterializzarsi”, cessando così del tutto di essere oggetto fisico da rintracciare in uno spazio fisico, sia esso pubblico o commerciale, per diventare puro accesso a informazioni, storie ed emozioni. Sto parlando ovviamente del definitivo avvento, da più parti annunciato, di un’epoca della lettura digitale, quale che sia il device che la implementi (reader, smartphone, tablet).
In realtà io credo che proprio la dimensione inevitabilmente vincente della dimensione ubiqua della “lettura digitale” sottolinei con maggior forza l’ambito in cui lo spazio fisico del leggere, sia esso commerciale o pubblico e gratuito, torna a rivelarsi cruciale, a patto che si proponga come spazio aggregativo e propositivo, sede di incontro per un’opinione pubblica che non si accontenta di pura “connessione” ma desidera contatto (e in questo senso la lezione di Giangiacomo Feltrinelli, capace a suo tempo di chiamare a raccolta sotto le insegne delle sue librerie la giovane generazione postbellica italiana, resta viva e attuale). Per non rischiare di rimanere astratti basterà porre mente ad esempio a ciò che i librai Nicolini, a partire dal 1997 sono riusciti a mettere in piedi nella città di Mantova con il Festivaletteratura, facendo della piazza e del cortile un’eccezionale occasione aggregativa all’insegna del leggere, ripensando tra l’altro la libreria stessa come spazio en plein air, fluido e invitante. In altre parole, sempre di più l’attività intorno al libro e alla lettura sembra articolarsi intorno ai concetti di “servizio” (reperibilità, prezzo, rapidità di accesso al contenuto desiderato) e di “evento” (contatto con l’autore, dibattito). E’ facile intuire il vantaggio strutturale che sul primo aspetto oggi hanno le librerie di catena e domani avranno i grandi player del mercato digitale. Sul secondo aspetto invece entra prepotentemente un “fattore umano” che sembra avere molto potenziale e sul quale sarebbe bello vedere non solo le librerie, spinte dal gioco a volte anche crudele della concorrenza, ma anche le biblioteche come luoghi che evolvono all’insegna della creatività e della proposta aggregatrice, magari facilitati dal fatto che l’evento librario è “povero” per definizione e non mette in gioco risorse importanti. Non manca chi vede in questa dimensione eventistica del leggere un portato inesorabilmente televisivo, in cui la centralità dell’autore, meglio se di successo, supera o sembra superare a volte il contenuto di ciò che il suddetto autore ha davvero da dire. Ma chiunque sia stato almeno una volta a Mantova, Pordenonelegge o al Festival della Mente di Sarzana sa che è un rischio che vale ben la pena correre a fronte di una rivalorizzazione della sfera del pubblico dibattito che sembra superare di botto qualunque forma di smaterializzazione e individualismo cui il digitale sembra inesorabilmente spingere l’atto della lettura. Leggere in un luogo preciso piuttosto che ovunque, può dunque ancora oggi rappresentare un valore definito, e trovarsi in un luogo a parlare di libri, piuttosto che ovunque nello spazio virtuale, può essere ancora un atto importante. Ovviamente tutto ciò richiede forte spirito imprenditoriale e grande creatività, quando non entrambe le cose (e in particolarmente interessante e foriera di sviluppi mi sembra essere in questo senso l’esperienza di radicale innovazione dello spazio bibliotecario pubblico messo in atto da Dogliani). Ma sono proprio questi i terreni su cui la grande battaglia digitale degli ultimi anni ha segnato più vittime e più eroi, trascinando nelle proprie vicende ogni aspetto della fruizione culturale, lettura ovviamente non esclusa.

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Sergio Dogliani, Deputy Head of Idea Store, London
[expand title=”Idea Stores. Note“][box]Sergio Dogliani
Idea Stores. Note

Gli Idea Stores sono un servizio pubblico che consiste in una struttura di centri polivalenti che offre principalmente biblioteche, ma anche corsi di formazione e per il tempo libero per adulti e famiglie, servizio informazioni e spazio caffè – il tutto gestito dal comune di Tower Hamlets (una delle 32 municipalità di Londra, 250.000 abitanti residenti, situato in un?area di alta densità tra la City e il Tamigi, nel tradizionale East End della capitale inglese). La popolazione è cosmopolita, con il 49% appartenente a minoranze etniche, di cui il 33% proveniente dal Bangladesh, e il resto da comunità vietnamite, cinesi, somale e afro-caraibiche. A differenza delle biblioteche e dei centri di formazione precedentemente esistenti nella zona, tutti gli Idea Stores sono posizionati al centro di altre attività locali, sulla strada principale del quartiere, presso supermercati o mercati rionali, vicino alle stazioni della metropolitana, alle banche e altri servizi locali di uso comune. Questo favorisce una frequentazione che diventa una cosa naturale, quotidiana, di routine, così che l?andare in biblioteca è un po? come andare dal panettiere o all?ufficio postale.

Alla base del concetto Idea Store c’è un’approfondita ricerca di mercato tra utenti e non utenti di biblioteche che ha rivelato un desiderio tra la gente di poter accedere facilmente ad attività aggiuntive – e complementari – alla lettura, come i corsi. Da qui la necessità di costruire edifici dove i due servizi convivono, ma dove quello che dapprima sembrava semplicemente un matrimonio di convenienza – di per sè tutt?altro che disprezzabile, e molto pragmatico, tipico della cultura britannica – si è poi rivelato avere il potenziale per favorire una sinergia che trae la forza dal fatto che chi è attratto dalla lettura spesso vuole imparare qualcosa di nuovo, e viceversa chi è impegnato nell?apprendimento di materie e discipline come lo yoga, la cucina, le lingue straniere, la grafica, la danza, il cucito, l?informatica e molti altri tra gli 800 corsi aperti a tutti annualmente, può approfondire maggiormente i propri studi se si trova in un ambiente dove è facile accedere a documenti e materiali che può prendere in prestito gratuitamente.

Un altro fattore importante rivelato dalla ricerca di mercato è l’idea di un servizio che trae molto dal settore commerciale – la cosa è spesso vista con sospetto da alcuni nel settore pubblico, ma va chiarito che, nel caso di Idea Store, si tratta semplicemente di trarre ispirazione da alcuni modelli di servizio, mentre lo scopo è sempre quello di offrire un servizio bibliotecario gratuito al pubblico, dove anche i corsi, che non sono a scopo di lucro, sono a prezzi fortemente sovvenzionati dallo stato. Ecco allora dei centri che hanno tutto l?aspetto delle migliori librerie, con una ottima scelta di titoli, presentati in modo attraente (di copertina, piuttosto che di fianco come nella gran parte delle biblioteche tradizionali), con forti motivi grafici tra la segnaletica, dove si trova del personale attento e premuroso che cammina tra gli spazi, a disposizione del pubblico, piuttosto che seduto dietro a un imponente bancone. Gli orari sono anche quelli lunghi dei grandi magazzini: 7 giorni alla settimana, 71 ore di apertura, 357 giorni all?anno.

I modi di comportamento all?interno degli edifici sono anche dettati da modelli lontanissimi da quelli presenti solitamente in edifici pubblici – non esiste segnaletica negativa (vietato mangiare, bere, ecc.), perchè si vuole creare un posto dove impera il rispetto per gli altri, dove non è necessario imporre limitazioni dettate da una severità decisamente d?altri tempi – ecco allora il permesso di poter consumare un panino o un cappuccino anche nelle aree di lettura o vicino alle postazione informatiche, o di usare (in modo discreto) il cellulare.
L’adozione di questi modelli e l?applicazione di una politica permissiva non ha creato nè caos, nè vandalismo, nè comportamenti antisociali, come alcuni prevedevano. Il rispetto è una cosa contagiosa, e il fatto di trattare gli utenti in modo civile ha certamente contribuito a creare il „terzo posto? così come lo intende il sociologo Ray Oldenburg, un posto neutrale dove la gente si trova a proprio agio, nel rispetto e nella tolleranza verso gli altri. In questo ambiente, la coesione sociale è una cosa naturale, importantissima in un quartiere multiculturale come Tower Hamlets. Gli Idea Stores appartengono proprio a tutti, e favoriscono la fruizione della cultura (con la „c? minuscola) dove coesistono collezioni di letteratura di alto livello accanto a letteratura romantica della collana „Harmony?, gallerie d?arte con opere di artisti nazionali e internazionali accanto a lavori prodotti da bambini delle scuole locali.

Dal 1998 a oggi le utenze annuali sono salite da 550.000 a 2.100.000 (e dal 18% al 56% il numero dei residenti che frequentano abitualmente, 8% al di sopra dell?attuale media nazionale, con il risultato che Idea Store Whitechapel è la biblioteca più frequentata del centro di Londra). Anche i prestiti di libri sono aumentati del 20%, fatto straordinario, soprattutto in un contesto britannico che negli ultimi dodici anni ha visto i prestiti crollare, con una perdita del 25%. I livelli di soddisfazione stanno andando di pari passo, con un 90% degli utenti che ora considerano il servizio buono o ottimo. Oltre al successo tra i residenti, gli Idea Stores sono riconosciuti a livello internazionale come un modello da imitare. Nonostante la crisi nazionale del settore in Gran Bretagna, dove si prospetta la chiusura di centinaia di biblioteche, a Tower Hamlets non solo stanno ampliando ulteriormente gli orari di apertura, ma si sta costruendo un nuovo Idea Store, il quinto dei sette previsti (1.200 metri quadri, costo 4.5 milioni di euro, apertura prevista nel 2012). Ed Vazey, ministro responsabile per le biblioteche che da sempre apprezza l?impatto degli Idea Stores nel campo delle biblioteche, ha detto recentemente:

“Anche a Tower Hamlets hanno chiuso biblioteche, ma l?hanno fatto seguendo una linea strategica, reinventandole e trasformandole in Idea Stores. Il nome ha offeso alcuni tradizionalisti, ma l?utenza ha raggiunto livelli altissimi.”

A differenza di altre iniziative della municipalità, gli Idea Stores sono a prova di crisi perchè dietro il successo c’è stato il coraggio nel decidere di intraprendere una strategia molto ambiziosa dieci anni fa – mentre altri si concentravano sul preservare servizi obsoleti, Tower Hamlets ha dimostrato che dove c’è innovazione c’è futuro, e che è molto meglio avere 7 buone biblioteche che 13 di scarsa qualità.

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Adriano Solidoro, Docente di Gestione della Conoscenza, Università Milano-Bicocca
[expand title=”Cultura, partecipazione e territorio nell’era di Facebook e Youtube“][box]Adriano Solidoro
Cultura, partecipazione e territorio nell’era di Facebook e Youtube

La mediatizzazione è onnipresente in ogni esperienza culturale. Lo suggeriva già nel 1999 J. Tomlinson in Globalization and Culture (tradotto in Italia con il titolo Sentirsi a casa nel mondo) ma oggi è ancora più vero perché la mediatizzazione delle transazioni, delle relazioni e del condividere sociale è ancora più generalizzata, ed è ancor più causa (ed insieme effetto) della globalizzazione. A questa condizione culturale è legato il concetto di deterritorializzazione, intesa come la proliferazione di “esperienze culturali translocalizzate” (definizione di Hernàndez, 2002).
Il concetto di deterritorializzazione viene spesso percepito con accezione negativa, se non apocalittica, come abbandono del territorio, omologazione globalizzata o marketizzazione della cultura. Può anche essere inteso però come il superamento dei limiti spaziali e culturali, come elemento di potenzialità di transizioni, collaborazioni e dinamiche organizzative non più in base ai confini di luoghi territorialmente delimitati ma in relazione a flussi di comunicazione e condivisione. Un “levare di ancore” (Giddens 1990), che favorisce l’apprendimento e lo scambio con l’esterno, che genera vicinanza con la distanza ed una relativa presa di distanza da ciò che è vicino.
I media (tutti) e la sempre maggior diffusione del web a ogni latitudine e ambito del vivere, sono ovvi veicoli di deterritorializzazione e catalizzatori di altri fattori della stessa dinamica (migrazioni, turismo, diffusione degli shopping center, trasformazioni economiche e sociali). La diffusione del web, come tecnologica e soprattutto come pratica di comunicazione e condivisione, ha partecipato alla rielaborazione di molti modelli di interazione sociale al di là del senso del luogo. Non è più ormai sempre necessario essere in luoghi precisi e definiti per esercitare l’azione comunicativa, produttiva ed organizzativa. E Il web, nella sua attuale evoluzione, non è più soltanto una tecnologia di comunicazione, ma un vero e proprio ecosistema informativo, culturale ed economico che forza e supera i limiti spaziali.
Il concetto di deterritorializzazione si riferisce a un cambiamento culturale, dunque. Ma ciò non vuol dire che questo cambiamento debba considerarsi automaticamente un processo evolutivo “disancorato”, quanto piuttosto l’inserimento di nuovi elementi nella cultura di un luogo. Paradossalmente, infatti, le spinte che operano in direzione delle deterritorializzazione vengono bilanciate da forze opposte che avviano il processo inverso di riterritorializzazione. Forze che permettono di trarre nuove identità e significati. Al processo di deterritorializzazione, infatti, solitamente segue subito dopo quello di riterritorializzazione. Per cui elementi culturali e simbolici, pratiche sociali, economiche e organizzative appresi dall’incontro/confronto con altre comunità vengono assorbite e reinterpretate nel e sul territorio. Processo quindi non di impoverimento delle interazioni culturali radicate, quanto piuttosto (almeno potenzialmente) una rivitalizzazione e una trasformazione prodotte sia a livello simbolico (l’immagine e l’immaginario dei luoghi) che sul piano delle attività (nuove iniziative, cambiamento organizzativo, strategie innovative, collaborazione).
Il web è dunque anche veicolo e catalizzatore di dinamiche di riterritorializzazione, così come lo è di deterritorializzazione. Esso partecipa infatti alla ridefinizione dell’idea di produzione e fruizione culturale, ma anche del concetto di bene culturale territoriale che viene adesso detradizionalizzato perché accostato, intrecciato e fuso con elementi altri. Ne conseguono diverse modalità di vivere e raccontare il territorio e la cultura locale e territoriale, in tensione fra l’anamnesi, il desiderio di ricordare (si pensi per esempio alla “febbre d’archivio” che pervade il web, dalla digitalizzazione documentale, al recupero di usanze e narrazioni iperlocali) e l’amnesia, l’impulso verso il nuovo e l’innovazione (il territorio non come luogo storico da riscoprire ma luogo da ri-immaginare e ri-raccontare). Il web e gli strumenti e le pratiche social media consentono nuovi modi di partecipare e condividere. Esperienze personali si fanno collettive e contribuiscono a una memoria culturale fluida e partecipata, composta di interpretazioni e significati personali e collettivi. Le tecnologie sociali, infatti, non solo estendono le reti di interazione interpersonale ma pervadono anche l’ambiente fisico, supportando nuovi modi di interagire con il territorio. Introdurre o rafforzare un senso del luogo attraverso le tecnologie sociali significa creare un rapporto vivo e sostenibile con il patrimonio territoriale. In altre parole, significa creare spazi di comunicazione e interazione capaci di sostenere nuove forme di coinvolgimento con le componenti ambientali e sociali del territorio. La tecnologia, infatti, partecipa sempre più spesso all’attività del ridisegnare gli spazi pubblici. Le frontiere delle propria città si estendono adesso sui social media, per mezzo di smartphone, di mappe interattive, di servizi geolocalizzati, della realtà aumentata, come l’utilizzo dei codici Qr su edifici e monumenti, favorendo pratiche di condivisione di immagini e video, e di mappatura collaborativa o di reportage amatoriale. Promuovendo una cultura della partecipazione, le tecnologie sociali creano dunque infrastrutture di comunicazione e interazione che agiscono come luoghi di produzione culturale e di creazione di valore. L’interesse per la città è ciò che accomuna tutte queste iniziative. E la provocazione è spesso un ingrediente fondamentale di una rivisitazione ludica del territorio, per richiamare l’attenzione e cambiare la percezione dei cittadini. Si pensi per esempio a tipologie di gioco urbano pervasivo di recente sviluppo che hanno in comune l’utilizzo creativo dello spazio pubblico, attraverso l’uso di diverse piattaforme tecnologiche (a Milano, per esempio, è attivo il collettivo Critical City, www.criticalcity.org) e l’urgenza partecipativa all’atto ludico, partecipativo e liberatorio, per riappropriasi dello spazio pubblico e l’uso consapevole del territorio come area o mappa da ri-elaborare. Una sfida aperta alle concezioni e pratiche museali, patrimoniali e distrettuali istituzionali, con un movimento “dal basso” di portata radicale. Questi progetti invece sono monumenti per un giorno, hanno una forza maggiore, danno vita a comunità temporanee e stimolano a vedere con altri occhi gli spazi condivisi. Gli esempi di utilizzo del web per la riterritorializzazione sono molteplici e variegati, oltre che numerosissimi sia livello internazionale che italiano. Stanno infatti emergendo progetti che utilizzano il web e i social media per favorire lo sviluppo della città e delle sue comunità, per generare innovazione partendo dalle risorse materiali e non, e per far sì che le città vivano e si rinnovino attraverso la pluralità d’identità che la abitano, attraverso scambi culturali di arricchimento reciproco. L’attività del Digital Storytelling Center (www.storycenter.org), per esempio, risponde alle necessità delle comunità locali dell’aria di San Francisco di raccogliersi attorno alle proprie memorie individuali e collettive, così come ai racconti di chi visse un passato lontano e difficile o di chi cerca di spiegare e di raccontare le trasformazioni più recenti o ancora in atto. A New York, il progetto CultureNOW (www.culturenow.org), invece, si traduce in un database accessibile per mezzo di smartphone che raccoglie mappe, visite auto-guidate e fotografie riguardanti la storia, l’arte e l’architettura della città. A Parigi, per i 140 anni della Comune di Parigi il collettivo Raspouteam ha realizzato una serie di interventi di street art nei luoghi chiave della storia francese, affiancati a un codice Qr che accompagna i passanti al sito web dedicato. L’obiettivo di People’s Voice Media, progetto di Manchester, è invece quello dell’inclusione sociale nei quartieri, cosiddetti, svantaggiati. Attraverso il web, People’s Voice Media agevola la diffusione e la condivisione di informazioni utili alle comunità, come quelle sui servizi al cittadino, sanità e trasporto pubblico, cercando di colmare la distanza tra cittadini e istituzioni. Ma non si tratta solamente di fornire servizi digitali ai cittadini. Grazie alla partecipazione della BBC l’associazione promotrice ha attivato corsi di formazione per diffondere l´uso delle tecnologie come strumento di empowerment e crescita del capitale sociale delle comunità. Su tale esperienza sono nate vere comunità di reporter amatoriali, che attive su diversi quartieri producono storie, racconti, ed informazioni d’interesse alle comunità di riferimento. Per l’Italia si possono citare gli esempi di Torino, dove un museo “virtuale”, grande quanto l’intera città, permette di percorrere online lo spazio urbano, seguendo percorsi a tema e reperendo informazioni sui luoghi navigando la cartina interattiva (www.museotorino.it). A Torino è attivo anche SanpaBlog, progetto simile a quello di Manchester citato sopra. L’obiettivo finale è che siano le stesse comunità, organizzate in gruppi di community reporter, a produrre i contenuti di interesse condiviso. Il mezzo è quello di fare rete tra i vari attori locali, favorendo l’interazione tra gli abitanti, le associazioni, i politici, fornendo uno spazio di pratica di cittadinanza. SanpaBlog è il blog del quartiere, San Paolo Cenesia, con un passato industriale ed un presente da reinterpretare. Le pratiche di partecipazione (creazione di contenuti da parte degli abitanti del quartiere) tracciano un percorso di ri-acquisizione della memoria storica come valore del territorio. E numerosi sono anche gli interventi sui problemi del quartiere seguiti da azioni ed interazioni anche fuori dallo spazio online che accrescono le capacità di espressione e di fare rete. Gli esempi citati utilizzano il web e i social media come strumento e pratica di partecipazione e innovazione per la crescita del capitale sociale delle comunità urbane e dei loro quartieri. Le tecnologie digitali e le pratiche partecipative regalano al pubblico sorprese e re-interpretazioni originali degli spazi, attraverso iniziative che vanno dalle narrazioni collettive, agli urban game, a iniziative che si propongono di trasformare i luoghi animandoli ed offrire esperienze condivise, accesso a servizi o uno sguardo alternativo sulla città, per tornare a dare un significato a spazi che lo hanno perso. Attività che possono favorire la pianificazione di realtà distrettuali, di azioni di marketing territoriale o di produzione culturale. In particolare, i distretti culturali si basano sulla prossimità e sull’idea che i diversi attori che ne fanno parte possano trarre vantaggio dalla vicinanza fisica per avere più occasioni per collaborare tra loro, scambiarsi idee, sviluppare valori e pratiche condivisi. Ma anche nella prossimità del territorio vi sono tuttavia limitazioni continue, temporali, strutturali, organizzative. L’organizzazione in base a obiettivi ed identità comuni può quindi venire accelerata, e la collaborazione intensificata, attraverso l’uso dei social media, i quali agevolano le relazioni tra individui e rispondono al bisogno di partecipazione e condivisione. Recenti studi (Burgess et al. 2006; Deuze, 2006) rilevano che i luoghi di espressione della cittadinanza vanno oggi ricercati soprattutto nella sfera delle attività legate al consumo, al tempo libero, all’intrattenimento, alla cultura popolare, tanto quanto nelle attività legate alla politica. Questo è un elemento di grande novità nella sfera delle policy territoriali (e di riterritorializzazione) poiché permette di superare l’idea che la pratica dell’essere cittadino sia separata dal contesto dell’intrattenimento, dalle attività di consumo culturale e del tempo libero. Idea che oggi è pertanto smentita dalle forme spontanee di produzione e comunicazione culturale che si realizzano attraverso lo scambio “tra pari” di informazioni e contenuti che non solo aprono a nuove modalità di interazione con il territorio e le comunità locali ma sottolineano anche la necessità di nuovi rapporti fra pubblico, istituzioni culturali e attori privati.
Il web quindi può favorire anche quelle micro-dinamiche necessarie ai diversi stakeholder che collaborino alla costruzioni di sistemi culturali. Interazioni che non sarebbero possibili se attivate attraverso rigidi modelli di pianificazione sequenziale. Il passaggio verso il distretto culturale pilotato dall’alto è, infatti, spesso una soluzione poco percorribile, che rischia il fallimento nel momento in cui imbocca il cul-de-sac della retorica. Nell’era di Facebook, Youtube e Twitter l’obbligo per qualsiasi progetto di riterritorializzazione è far partecipare i cittadini stimolandone le opinioni attraverso l’integrazione e una socialità allargata e mediata, tipiche delle logiche dei network sociali. Tale logica necessità sviluppi articolati e diffusi sul territorio e sul tessuto sociale di non sempre facile applicazione per la difficoltà ad integrare realtà esistenti non omologate.
Altra criticità è quella legata al digital divide. L’uso di strumenti di partecipazione online, infatti, implica non solo un’alfabetizzazione digitale e politiche che favoriscano la connessione alla rete in tutto il territorio, ma anche competenze espressive e di concettualizzazione che non possono che essere raggiunte attraverso percorsi educativi.
Bibliografia
Burgess, J., Foth M., Klaebe H. (2006), “Everyday Creativity as Civic Engagement. A Cultural Citizenship View of New Media”, in Proceedings Communications Policy & Research Forum, Sydney
Deuze M. (2006), “Participation, Remediation, Bricolage. Considering Principal Components of a Digital Culture”, in The Information Society, 22:2, pp. 63-75. Giddens, A. (1990), The Consequences of Modernity, Cambridge. Polity Press.
Hernàndez, G. M. (2002), La modernitat globalitzada. Anàlisi de l’entorn social, València. Tirant lo Blanch. Tomlinson, J. (1999), Globalization and Culture, Chicago. University of Chicago Press. Trad. it. Sentirsi a casa nel mondo (2001), Feltrinelli.
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Valentina Culatti, Executive Producer Adobe Museum of Digital Media
[expand title=”Adobe Museum of Digital Media, un luogo virtuale per la fruizione di cultura“][box]Valentina Culatti
Adobe Museum of Digital Media, un luogo virtuale per la fruizione di cultura

Adobe Museum of Digital Media (AMDM) è un luogo virtuale attraverso il quale viene fruita la cultura. Si tratta di un website (www.adobemuseum.com) il cui scopo è quello di celebrare i media e gli artisti digitali che ne stanno abbracciando ed esplorando il potenziale illimitato.

E’ il frutto di una stretta collaborazione tra Adobe Systems Incoporated, Piero Frescobaldi, cofondatore di unit9, casa di produzione digitale con sede a Londra, Filippo Innocenti, fondatore di Spin+ e professore di Tecnologia dell’Architettura al Politecnico di Milano e l’agenzia pubblicitaria Goodby Silverstein and Partners di San Francisco.

Come ogni luogo virtuale ADMD non ha una presenza fisica nella realtà bensì esiste solo online. La materia che lo compone è digitale e l’interazione con il pubblico avviene a schermo, attraverso impulsi visivi e sonori cui gli utenti sono chiamati a rispondere. Dal punto di vista logistico l’immaterialità garantisce immediati vantaggi di accessibilità: il museo infatti non ha barriere fisiche ed è aperto 24 ore su 24.

A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare da un committente tecnologico e da una natura digitale, questo luogo virtuale non si rivolge a specialisti del settore. Individua invece il suo utente tipo nelle persone comuni, interessate all’arte, non esperte di tecnologia digitale.

Ed è proprio in vista di questo pubblico generico, forse più avvezzo a orientarsi nel mondo analogico rispetto ai meandri del codice binario, che il team creativo ha voluto dare ad AMDM una veste architettonica. Lo spazio espositivo è stato pertanto progettato come un edificio reale, costituito da un atrio, sale per le mostre permanenti e alte torri d’archivio. I visitatori tuttavia non possono esplorare queste stanze in un’illusione tridimensionale. L’edificio resta una metafora cognitiva atta a generare un senso di familiarità, aiutando non solo il visitatore a orientarsi, ma anche il progettista a immaginare la portata dello spazio virtuale. Ma se da un lato il progetto architettonico mostra l’imponenza dell’opera qualora fosse stata realmente costruita, dall’altro rivela i limiti dei nostri attuali schemi mentali.

Dal punto di vista organizzativo si avvale di un direttore, Rich Silverstein, co-chairman e direttore creativo di Goodby Silverstein and Partners, e di un curatore responsabile pro tempore. Il primo curatore scelto è stato Tom Eccles, direttore esecutivo del Bard College Center for Curatorial Studies.

Le opere sono commissionate a nomi noti: tra i primi, il pioniere dell’arte digitale Tony Oursler e il design guru John Maeda. La mostra inaugurale di Oursler, Valley, esplora il nostro rapporto con Internet come specchio della coscienza umana. Oursler ha creato 17 punti di interazione che simulano le aree di relazione tra uomo e rete, invitando lo spettatore ad interagire con l’opera d’arte su una piattaforma del tutto singolare. A+B = C di John Maeda è invece una lezione interattiva che dimostra come gli innovatori stiano connettendo la creatività dei mondi creativi digitale e analogico (Atomi + Bits = il nuovo Craft).

Lasciando i dettagli descrittivi del contenuto all’esplorazione dei visitatori, è interessante interrogare nell’ambito della cornice “Cultura dove sei?” il motivo per cui il progetto è stato definito “museo” dai suoi curatori. E’ corretto chiamare questo luogo virtuale “museo”? La risposta dipende dalla definizione. Secondo l’International Council of Museums (ICOM) dicesi museo un’istituzione non a fini di lucro al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquista, conserva, ricerca, comunica ed esibisce con scopo di studio e intrattenimento.

AMDM stride con questa definizione perché creato da una multinazionale privata che agisce con l’obiettivo del profitto. In quanto società a scopo di lucro tale non può garantire progetti di conservazione a lungo termine nell’interesse del pubblico. Rientra invece nella definizione perché se i musei hanno l’obiettivo di fornire accesso al patrimonio culturale, un luogo virtuale che esiste online fornisce un livello di accesso più ampio ed è capace di ospitate un numero illimitato di mostre nello stesso momento.

Qual è pertanto il valore di AMDM? Si tratta puramente di un esercizio di marketing che promuove l’uso di strumenti digitali (quegli stessi strumenti che il suo committente produce) o è un effettivo luogo della cultura? L’approccio più onesto consiste probabilmente nell’affermare che il valore di AMDM sta in potenza, nel work in progress. I tempi infatti sono maturi per accettare nuove metafore per la fruizione di contenuti e Adobe Museum of Digital Media è una di queste.

[/box][/expand] Tavola rotonda:

[expand title=”Luciano Fasano, Assessore alle Politiche culturali, Comune di Cinisello Balsamo”][box]Luciano Fasano

Riflettere sui luoghi della cultura, sulle loro diverse caratteristiche, sul modo in cui essi contribuiscono a organizzare lo spazio della produzione e della diffusione culturale, con lo sguardo rivolto alle più originali pratiche, dal punto di vista della progettazione e della gestione presenti nel panorama europeo, può costituire per noi un’opportunità straordinaria, poiché ci permette di immaginare il sistema culturale del Nord Milano. È chiaro che, per quel che concerne i contenuti e il modello istituzionale, la prospettiva di un sistema culturale integrato e omogeneo è ancora di là da venire. Ma è altrettanto chiaro che se ci sforziamo di ragionare concretamente sul tema al centro di questo convegno, e lo facciamo guardando all’articolato insieme dei possibili luoghi di elezione della cultura in questa porzione dell’area metropolitana milanese, non possiamo fare a meno di accettare la sfida del sistema culturale, e al tempo stesso di traguardare su quel livello le nostre legittime aspirazioni. Villa Forno, la Biblioteca Tilane, l’Hangar Bicocca, il Teatro degli Arcimboldi, il Museo di Fotografia Contemporanea, il Centro Sperimentale di Cinematografia, il Parco Archeologico ex Breda-Marelli, il Pertini (centro culturale di prossima apertura), lo Spazio M.I.L., ed ancora il Parco Nord, l’Università di Milano-Bicocca, la Fondazione Bicocca, la Fondazione Pirelli, insieme alle amministrazioni comunali di questo territorio, costituiscono naturaliter un sistema di attori, luoghi, strutture vocato all’iniziativa culturale. L’unico nostro limite, in questo momento, consiste nel fatto che un sistema vero e proprio non lo siamo ancora. Vuoi perché le nostre relazioni reciproche fanno esclusivamente affidamento sulla buona volontà dei singoli attori, e cioè il grado di istituzionalizzazione dei rapporti fra questi elementi è ancora troppo basso. Vuoi perché non disponiamo ancora né di un progetto, né di un comune modello di governance per realizzarlo. Veniamo dunque a riflettere sul progetto. Il Nord Milano è da sempre luogo di trasformazione per eccellenza. Un tempo rappresentava un territorio a forte presenza industriale, dove dominanti erano fabbriche, aziende, luoghi della produzione materiale. Nell’arco di poco più di venti anni, queste aree sono state protagoniste di un importante processo di riconversione produttiva, diventando ambiti del terziario avanzato, mentre molti luoghi simbolo dell’impresa si sono trasformati in luoghi dell’innovazione tecnologica e della ricerca sperimentale, della produzione artistica e culturale. Questo radicale cambiamento, che è anche il risultato delle trasformazioni di cui la società italiana si è resa protagonista negli ultimi decenni, equivalente al passaggio dalla produzione materiale alla produzione immateriale, deve oggi indurci a ripensare luoghi e mezzi dell’attività culturale. L’incrocio virtuoso fra innovazione tecnologica e produzione simbolica che contraddistingue il nostro presente, ed è all’origine di nuovi codici e linguaggi, rappresenta un’esperienza importante per il nostro territorio, poiché ne segna la trasformazione in termini di identità sociale e ne evidenzia, al tempo stesso, una possibile vocazione futura. Il discorso sulle origini identitarie e sulla natura idiosincratica (in senso anglosassone, a significare qualcosa di distintivo e peculiare) di un luogo è un aspetto essenziale della sua costituzione, in termini socio-imprenditoriali, come distretto culturale. I processi culturali, infatti, sono – da un lato – idiosincratici e – dall’altro – universali. La cultura, per come trova radici peculiari in un dato territorio, cui contribuisce a fornire un’identità specifica, attraverso un processo creativo in grado di combinare origini del luogo a conseguenti vocazioni nella produzione artistica, è per sua stessa natura idiosincratica. Al tempo stesso, nel momento in cui un dato prodotto culturale si stacca dalle sue radici locali per diventare un bene dotato di un valore immateriale valido per tutti e senza confini, allora diventa universale. In questo senso, se la produzione di beni culturali è necessariamente legata a luoghi, la fruizione di beni culturali non può che essere ubiqua, nello spazio e nel tempo. Il concetto di cultura come bene idiosincratico, per quanto risulta legato al tema dei distretti culturali, presenta diverse implicazioni, e quindi si articola in diversi aspetti emblematici. In particolare, sono tre, secondo la letteratura sul tema, gli ingredienti socio-economici che concorrono a determinare le origini di un sistema culturale: a) l’apparizione di un’abilità (e di una tecnologia a essa connessa); b) lo sviluppo di capacità professionali correlate a quella abilità; c) la formazione di una domanda di beni che possono essere prodotti mettendo a frutto quella abilità (e la tecnologia a essa connessa). In questo, i sistemi culturali sono molti simili ai distretti industriali, secondo la teorizzazione che ne fece l’economista Marshall. E se questa analogia ha un senso, allora, al pari di un distretto industriale, un distretto culturale risulta in grado di produrre beni di tipo idiosincratico, non solo per le origini materiali e sociali della produzione, ma anche per talune caratteristiche tecnologiche, conoscitive e di mercato. Per dirla altrimenti, più un bene è time-specific e space-specific e meno il mercato – come meccanismo per la produzione e lo scambio di beni relativamente omogenei e fungibili – funziona in maniera efficiente nella sua produzione, nella sua distribuzione e nel suo scambio. Un bene culturale, in questo senso, è proprio time and space-specific, quindi risulta portatore di una peculiare qualità, che non è soggetta alle logiche della concorrenza tradizionalmente intesa. La creatività come capacità professionalizzata, e l’esistenza – necessaria – di una domanda fanno il resto. Con ciò, i sistemi (o distretti) culturali si definiscono in ragione della produzione di beni idiosincratici, ovvero con le caratteristiche che abbiamo appena menzionato, basati su una forma di creatività altamente professionalizzata, e rispondono all’esistenza di una domanda specifica. Per quel che concerne il Nord Milano: nuovi media, cinematografia, arti visuali, arte contemporanea (eco-arte), fotografia, sono le abilità (con le relative tecnologie) che, coniugate alla creatività professionalizzata già esistente, possono contribuire a dare vita, nel medio-lungo periodo, al progetto culturale del Nord Milano come sistema culturale integrato. In una prospettiva in grado di esaltare la contemporaneità, sia come forma dell’oggi, sia come simultaneità e contaminazione di diversi linguaggi, codici, metodi della produzione materiale e simbolica, relativi a una particolare cultura che si trasforma e innova nello stesso momento in cui si costruisce. E il forte legame con il contesto sociale ed economico, in quanto prodotto di una particolare evoluzione storica, è all’origine del vantaggio competitivo che contraddistingue un sistema culturale come vera e propria forma di accumulazione di capitale (ovviamente di natura sociale e culturale). Il punto fondamentale della nostra riflessione di oggi deve quindi riguardare il modo di integrare esperienze diverse – attori, luoghi, strutture diverse – per generare un filone culturale comune, in grado di valorizzare in chiave vocazionale un’abilità (una tecnologia a essa correlata) e una forma di creatività altamente professionalizzata, al fine di rispondere a una domanda culturale che, su scala metropolitana, a partire da Expo 2015, è destinata a crescere nel tempo. Di qui, i passi successivi, inerenti la costruzione di un sistema di relazioni istituzionalizzate regolate attraverso un modello di governance, dovrebbero venire di conseguenza, sebbene non possano che svilupparsi tenendo debitamente in considerazione il contesto normativo entro il quale ci si trova. A tale proposito, per lo meno rispetto agli Enti locali, la legge delega sul federalismo fiscale (n. 42/2009) definisce dei vincoli che, al di là di ogni eventuale giudizio di merito, contengono implicitamente delle indicazioni. Vincoli che obbligano a un complessivo ripensamento del modo in cui si producono attività culturali sul territorio, soprattutto per quel che riguarda le amministrazioni comunali, che al di là delle sempre più scarsa disponibilità di risorse economico-finanziarie, e malgrado già prima della Legge n. 42/2009 contribuissero per quasi 2/3 alla produzione di attività culturali nel nostro sistema paese, rappresentano i soggetti su cui istituzionalmente pesa l’onere maggiore della produzione culturale, oltre che la responsabilità di risponderne direttamente ai cittadini, a cominciare da servizi fondamentali e inalienabili quali le biblioteche civiche e i musei. Se quindi vogliamo ragionare sul futuro delle attività culturali a livello locale e territoriale, non possiamo esimerci dal considerare un modello di governance fondato sulla comparteciazione, in condizioni paritetiche, di pubblico e privato – Enti locali, fondazioni, imprese ecc. – nella ideazione, progettazione e produzione di beni culturali. Di qui dobbiamo partire: una nuova governance pubblico/privato; la valorizzazione delle abilità (e tecnologie) che individuiamo come vocazionali, e che per il Nord Milano – a mio avviso – non possono che riguardare nuovi media, cinematografia, arti visuali, arte contemporanea (eco-arte), fotografia; il potenziamento della creatività professionale a esse correlate; l’analisi e la costruzione – anche in chiave di marketing territoriale – della domanda culturale relativa a queste attività. E dobbiamo farlo guardando in maniera privilegiata in direzione di un modello di governance in grado di integrare il contributo del pubblico con quello del privato. Cinisello Balsamo, all’interno di questo quadro, è intenzionata a fornire un importante contributo. La prossima apertura del Centro culturale “il Pertini” (oltre 6.000 mq di superficie, un auditorium di 200 posti, sale conferenza; laboratori, sale lettura; un luogo destinato a ospitare la Biblioteca civica, ma anche tante altre attività culturali) è la dimostrazione più concreta della straordinaria attenzione che in questo momento la nostra amministrazione sta rivolgendo al tema della cultura a livello locale. Siamo consapevoli che si tratta di una sfida difficile. Ma siamo altrettanto consapevoli che la sfida, anche per il contesto legislativo al quale si faceva prima riferimento, investe soprattutto i poli museali e le biblioteche civiche, cioè le realtà che in futuro saranno destinate a diventare il perno dell’iniziativa culturale delle amministrazioni locali sul territorio. Biblioteche che sono sempre meno semplici luoghi di lettura e sempre più ambiti privilegiati di formazione, informazione, socializzazione, creazione di eventi. Poli museali che, in prospettiva, devono sempre meno essere finalizzati alla conservazione culturale e sempre più diventare luoghi di produzione artistica sperimentale. Il sistema culturale della nostra città, già oggi, e in prospettiva per il 2012 (anno di apertura del nuovo Centro culturale) si costituisce di tre importanti realtà, che facilmente possono essere inquadrate nel discorso che abbiamo fin qui condotto. Il Museo di Fotografia Contemporanea è già, e nel prossimo futuro il nuovo Centro culturale sarà, al pari del Museo, teatro privilegiato di iniziative culturali di portata metropolitana. E con l’inizio del mandato amministrativo corrente, stiamo ragionando sulla possibilità di valorizzare anche Villa Ghirlanda Silva e l’annesso parco, luoghi che già oggi permettono alla nostra città di essere capofila della Rete dei giardini storici – ReGis, come ambiti privilegiati della produzione culturale, soprattutto rispetto al recente filone di attività volto a rendere il patrimonio paesaggistico, artistico e architettonico di parchi e giardini il teatro di importanti eventi culturali. Tuttavia siamo consapevoli che se vogliamo dare al complesso delle nostre iniziative una valenza di tipo metropolitano, non possiamo fare a meno di impegnarci nella costruzione di un sistema culturale integrato con altri soggetti, le altre amministrazioni comunali del Nord Milano, così come Fondazioni private e imprese che con noi vogliamo concorrere a questa sfida. Perché per rispondere alla domanda di beni culturali che in un futuro ormai molto prossimo a noi si creerà nell’area metropolitana milanese è quanto mai indispensabile lavorare insieme nella costruzione di una vocazione comune. E poiché noi una vocazione comune, nel campo della cultura e nel pieno della sua contemporaneità, ce l’abbiamo, non resta che armarsi di buona volontà e con la lucidità di un progetto ambizioso cercare di dare il nostro contributo.

[/box][/expand] [expand title=”Roberta Valtorta. Direttore scientifico Museo di Fotografia Contemporanea, Cinisello Balsamo”][box]Roberta Valtorta

Considerato il fatto, a premessa di qualunque ragionamento, che negli avvicendamenti creati dai grandi flussi della storia e dell’economia ciò che è centro può sempre divenire periferia o anche decadere del tutto, e ciò che è periferico può trasformarsi in centro, diciamo che fin dalla sua nascita e per la sua stessa collocazione decentrata a Cinisello Balsamo, il Museo di Fotografia Contemporanea, pur operando scelte su scala internazionale, si è interrogato sull’importanza del rapporto con il territorio nel quale si trova. Ha quindi compreso profondamente nella sua missione culturale l’ideazione di progetti mirati a dialogare con i cittadini, non solo di Cinisello Balsamo ma anche della complessa area del Nord Milano, ieri territorio intimamente segnato dal grande processo di industrializzazione, oggi vasta area deindustrializzata che vive un momento molto delicato di radicale trasformazione non solo economica, ma anche sociale e culturale. Come molte aree ex-industriali del mondo occidentale, un’area in cerca di una nuova identità. In questa “ricerca del suo territorio” come momento costitutivo della sua stessa identità, il Museo si è peraltro coerentemente collegato alle sue radici: infatti è in seno al progetto Archivio dello spazio, parte del più ampio progetto Beni Architettonici e Ambientali della Provincia di Milano che si è fatta strada, nel 1996, l’idea di creare – finalmente anche in Italia e proprio a partire dalla collezione di quasi 8000 fotografie tutte dedicate al territorio in trasformazione della Provincia di Milano prodotte durante lo svolgersi del progetto – un luogo di conservazione, studio, valorizzazione della fotografia contemporanea. E’ così nato, nel 2004, l’attuale Museo di Fotografia Contemporanea. E dunque, in una continua riflessione sulle sue origini da un progetto di studio dei luoghi della contemporaneità nonché sulla sua collocazione nell’hinterland milanese, il Museo ha inteso far tesoro di questi due elementi: territorio e decentramento – con tutta la complessità che essi comportano.
Un museo della nostra difficile contemporaneità, dunque, che cerca la varietà non solo numerica ma anche identitaria dei suoi pubblici, e cerca di compiere agili scelte in tempo reale al fine di incontrare una società che si disgrega e cambia destino, e lo fa attraverso un mezzo, la fotografia, che oggi, da un lato, nell’avvenuto passaggio dall’analogico al digitale si trova coinvolto in un vero e proprio processo di mutazione, dall’altro occupa una posizione sempre più rilevante, per certi aspetti centrale, nell’ambito dell’arte contemporanea.
Per dotarsi di una possibile carta d’identità in sintonia con le grandi trasformazioni socio-culturali in atto, il Museo, oltre che attivare un Servizio educativo che lavora al coinvolgimento di ogni tipo di pubblico in iniziative di partecipazione non convenzionali, ha velocemente sviluppato alcuni progetti molto importanti, anche in senso simbolico. Dal 2001 al 2004, in preparazione dell’inaugurazione, ha realizzato tre seminari (E’ contemporanea la fotografia?, Fotografia e postfotografia, Presente e futuro della fotografia) che hanno messo in discussione l’attualità stessa della fotografia e del museo stesso, producendo un quaderno di studio dal titolo E’ contemporanea la fotografia? Nel 2005-2007 il Museo è uscito dalla sua sede andando letteralmente nel territorio in cerca del pubblico attraverso la grande opera di arte pubblica ideata da Jochen Gerz dal titolo Salviamo la luna, che ha coinvolto e impegnato sul tema fondamentale del ritratto quasi 3000 cittadini di Cinisello Balsamo, dei comuni limitrofi, di Milano, resi protagonisti e idealmente coautori del complesso processo creativo del quale l’opera era intessuta. Nel 2007 un altro progetto dal titolo Io parto ha visto installazioni di fotografie di Paola De Pietri fuori dal museo, in luoghi vari della città, dall’ufficio postale alla chiesa, dalla biblioteca civica all’ufficio anagrafe. Nel 2008 è stato realizzato il progetto Mobile City, basato sulla fotografia fatta con il cellulare e studiato per un pubblico di adolescenti di tutta l’area metropolitana milanese, in un confronto con l’area metropolitana di Toronto. Infine nel 2011-2012 il Museo ha dato vita e sta sviluppando al vasto progetto Art Around, del quale il convegno di oggi è parte, che vedrà impegnati otto giovani artisti italiani in installazioni in altrettanti centri di cultura del Nord Milano – quelli che oggi si trovano qui riuniti in questa importante tavola rotonda –, e l’artista svizzero Beat Streuli in una grande installazione all’aperto che verrà realizzata in occasione dell’inaugurazione del nuovo Centro culturale Pertini.
Questo programma di lavoro punta alla progressiva costruzione di un museo che, in linea con orientamenti che, affermatisi da vent’anni a questa parte, hanno più lontane radici negli anni Settanta, quando, non va dimenticato, dopo la creazione del Centre George Pompidou, all’idea di museo-monumento iniziò a sostituirsi quella di museo aperto: un museo non più preposto ai soli compiti della conservazione, dello studio, dell’esposizione, ma pensato e vissuto in modo non affermativo ma interrogativo, come luogo di incontro e di scambio costante con gli artisti e con il pubblico. E, aggiungiamo, nel momento contemporaneo posto in dialogo con le trasformazioni del territorio nel quale si trova ad agire, oltre che con ciò che a questo tema fa da problematico e interessante contraltare: la irrinunciabile dimensione della rete, che porta anche le istituzioni verso un inedito modo di essere basato sulla mobilità, la velocità, la relatività, la virtualità, la necessità di percepire i processi di creazione e di comunicazione in tempo reale.

[/box][/expand] [expand title=”Chiara Bertola. Direttore artistico HangarBicocca, Milano”][box]Chiara Bertola

Dalla sua riapertura nel giugno 2010 HangarBicocca si è configurato come uno spazio dedicato all’arte contemporanea caratterizzato dall’ospitare nuove modalità di creazione e di fruizione artistica e di dialogo con il pubblico, in una logica pluridisciplinare e di rapporto con il territorio.

Nello specifico, Hangar si è posizionato come l’unico centro d’arte contemporanea di qualità internazionale attivo non solo a Milano ma anche nel nord Italia, aperto verso le realtà espositive europee più consolidate.
La sua caratteristica evidente nella programmazione, rispetto ad istituzioni museali riconosciute del nord-centro Italia (come il Castello di Rivoli, il Mart di Rovereto, il Museion di Bolzano, il Centro Pecci di Prato, il Mambo di Bologna o le varie gallerie civiche – Torino, Bergamo, Trento – ), è il non avere allentato il ritmo delle attività espositive proposte durante la crisi, ma l’avere individuato una formula originale che dalla crisi stessa prendesse le mosse (il grande progetto Terre Vulnerabili), che ha consentito di coprire una stagione di attività con mostre di profilo altissimo che hanno messo Hangar a confronto con istituzioni europee, finendo così presto riconosciuto a più riprese dal prestigioso “New York Times”.

Tutte le mostre e gli eventi presentati da HangarBicocca si sono caratterizzati per essere improntati alla ricerca, alla sperimentazione e alla volontà di realizzare progetti site-specific. Dal 2010 dunque, la spina dorsale del programma di HangarBicocca è costituita da progetti di arte visiva, come hanno dimostrato le mostre di Christian Boltanski prima, e la collettiva Terre Vulnerabili poi. Intorno al programma espositivo si sono aperte delle Fessure: eventi di altri  linguaggi contemporanei come musica, danza, teatro individuati dal team curatoriale per dialogare – arricchendolo – con l’inesauribile soggetto delle Terre Vulnerabili. Il programma degli eventi si è arricchito dell’originale formula – una volta al mese, di domenica – del ‘garage sale’, che si è dimostrato lo strumento più efficace per mettere in contatto tanto le comunità creative urbane, quanto il pubblico delle famiglie più curioso e disabituato alla frequentazione degli spazi d’arte contemporanea.

Alcune micro idee, semplici e comunitarie, per attivare il Distretto
Il Distretto Bicocca è composto da diverse realtà culturali ognuna con una propria vocazione in grado di creare e attivare un microsistema di produzione culturale che non ha nulla da invidiare a quello del centro città: l’Università, il Teatro, la Scuola di Cinema, il Parco, il Centro di Musica Sperimentale, il Museo di Fotografia, gli archivi della memoria industriale, i Comuni limitrofi….una rete che deve iniziare a pensarsi insieme e a comunicarsi come tale.
-Una delle micro-azioni che immagino, sarebbe, molto semplicemente, quella di pensare, almeno una volta all’anno e all’interno delle singole programmazioni di ognuno, un progetto comune. Immagino un tema che possa poi essere sviluppato e declinato da ogni singolo soggetto del Distretto secondo le proprie vocazioni. In questo modo si rafforzerebbe il progetto e si mischierebbero i pubblici e questo potrebbe anche portare il Distretto a diventare un esempio di gestione e programmazione culturale da esportare nelle varie comunità fuori. Questo modo di lavorare, inoltre, attiverebbe e trasmetterebbe all’esterno il pensiero che alla Bicocca è nato davvero un Distretto culturale.
-Un’altra azione semplice, ma non meno importante, riguarda la comunicazione: bisogna far sapere al centro che nel quartiere Bicocca è nato un Distretto. Piccoli suggerimenti banali:
-creazione di un logo
-attivazione di un sito
-calendario delle programmazioni (questo significa mettere insieme un calendario delle singole programmazioni e produrne uno unico del Distretto da comunicare)
-una mappa/cartello segnaletico nei singoli luoghi che dichiari l’appartenenza al Distretto ma anche indichi la strada del come raggiungere le singole istituzioni.
-individuazione di un modo per collegare il Distretto alle istituzioni culturali nel centro di Milano: se non a livello di programmazione almeno con mappe o segnaletica …

Dialogo con l’Expo
La nascita del Distretto culturale della Bicocca e il suo lancio consisterebbe in una posta minima di risorse – da garantire a fronte di un investimento – che porterebbe indubbiamente a un’altissima efficienza, produzione e consolidamento dell’identità. Senza avere l’ambizione di essere una macchina culturale con proposte di contenuti quotidiani, il Distretto non dovrebbe assolutamente perdere l’occasione di dialogare con la nuova fase di rilancio della città in direzione dell’Expo, imponendosi come un quartiere vivo e ricco di luoghi culturali in grado di dialogare con le attività in città e pianificate dall’Expo in grado di attirare e di accogliere visitatori internazionali e locali con l’assoluta interdisciplinarietà della propria attività.

[/box][/expand] [expand title=”Carlo Peruchetti. Direttore Produzione I Pomeriggi Musicali, Teatro degli Arcimboldi, Milano”][box]Carlo Peruchetti

La possibilità di figurare tra i luoghi coinvolti nel progetto Art Around. Immagini per lo spazio pubblico, nonché di partecipare attivamente al suo percorso creativo – come il progetto stesso prevede nella sua ottica work in progress – concede al Teatro degli Arcimboldi di Milano – e alla Fondazione I Pomeriggi Musicali che lo gestisce – di prendere parte a un’iniziativa d’eccellenza. Il Teatro degli Arcimboldi, dal 2007, dopo aver assolto la sua funzione di sala ospite per le produzioni scaligere e aver vissuto due stagioni di conduzione compartecipata da parte del Comune di Milano e di cinque fondazioni cittadine, si è trovato a doversi “ri-creare” come luogo di cultura decentrato sotto la gestione esclusiva della Fondazione I Pomeriggi Musicali. “Ri-creare” un luogo di cultura significa trovare per esso una nuova e vitale identità, radicarlo nel territorio, così come renderlo in grado di interessare bacini d’utenza che ne trascendano i limiti geografici. Inoltre, nel caso di Milano, significa inserirlo in una mappatura d’offerta culturale cittadina di gran lunga superiore alla domanda che la sostiene; in definitiva, significa riuscire a creare per esso un nuovo, specifico pubblico.
La Fondazione I Pomeriggi Musicali ha puntato sull’eclettismo delle proposte, realizzando cartelloni in grado di spaziare quasi esaustivamente fra i diversi generi di spettacolo dal vivo, coscienziosamente mantenendo come unico minimo comune denominatore l’alta qualità di quanto offerto.
Posizionato al confine tra la Zona Nord e l’inizio della topografia del centro, in quattro anni d’attività, la sala della Bicocca è così stata in grado di convogliare verso di sé l’interesse del traffico culturale di Milano e dell’hinterland e, grazie alla caratura internazionale della sua programmazione, di richiamare a sé pubblico dall’estero. Questo è quanto il Teatro degli Arcimboldi può oggi offrire come contributo al progetto Art Around. Forte inoltre dei suoi oltre 250.000 spettatori di media a stagione, si sente capace di fornire al progetto un apporto considerevole anche da un punto di vista quantitativo. Ora, considerando i risultati raggiunti, pare un momento opportuno e fertile per affiancare alla regolare attività del teatro l’impegno all’interno di un’iniziativa che, trascendendo l’operato delle singole istituzioni coinvolte in un ottica “distrettuale”, possa configurarsi come naturale direttrice d’evoluzione del percorso finora seguito.
Invero, la linea d’esempio nel cui solco si inserisce Art Around è da ascrivere in tutto e per tutto a quanto realizzato da importanti modelli internazionali, i quali, grazie a una forza motrice culturale, hanno dato origine a esperienze oggi definite “distretti culturali evoluti” (si faccia riferimento al caso di Linz in Austria, citato da Pier Luigi Sacco e Sabrina Pedrini nel loro saggio Il distretto culturale: un nuovo modello di sviluppo locale?). Art Around, nel suo coinvolgere le istituzioni della cultura operanti nel distretto del Nord Milano, è da considerare primo tassello di un mosaico di relazioni reciproche e collaborazioni fra chi, in questa zona della città, opera e produce cultura, in una prospettiva di permeabilità di idee e iniziative. In un contesto soggetto a forti trasformazioni, in cui proprio i luoghi dedicati al consumo culturale si vanno  ridefinendo e devono necessariamente trovare nuove modalità per servire le proprie utenze, è importante poter fornire il proprio contributo a un’iniziativa che mira a interrogarsi sulla loro evoluzione – tema al quale è stato giustappunto dedicato il primo appuntamento di lavoro di Art Around: il convegno Cultura dove sei? I luoghi della cultura nel flusso dei cambiamenti economici, sociali e tecnologici. Il teatro è luogo pubblico per eccellenza, non solo perché alla comunità pubblica si rivolge e la comunità pubblica accoglie, ma perché il pubblico risulta essere elemento assiomatico della sua stessa esistenza e natura. La nascita di spazi “altri”, di nuove esperienze che indagano altrettanto nuove prassi di fruizione, l’arrembante ingerenza degli universi virtuali, impongono fortemente l’interrogativo: Cultura dove sei? La ridefinizione dei luoghi della cultura e della funzione che essi dovranno rivestire nel futuro prossimo deve necessariamente essere approcciata in costante dialogo con quanto di nuovo sta nascendo, per fare in modo che, pur nel necessario rispetto delle proprie identità, storia e tradizione, i luoghi deputati alla cultura non scadano nell’essere relegati a una fruizione di tipo museale – nell’accezione peggiore del termine – ma traggano linfa da quest’epoca di cambiamento.
Per rifarsi alla lezione della storia, quando si pensa a un teatro decentrato, la data a cui la memoria si volge è il 1876, quando si inaugurava il Festspielhaus di Bayreuth. La nascita del teatro wagneriano come nuovo spazio progettato per modificare radicalmente la fruizione della rappresentazione musicale fu resa possibile dall’evoluzione che aveva investito trasporti, tecniche di costruzione e dalla grande innovazione portata dall’utilizzo della luce elettrica. Cambiamenti tecnologici, dunque, risibili se paragonati alle dinamiche esperienze moderne, ma che sconvolsero il mondo con la stessa dirompenza portata oggi dall’ascesa dei nuovi media, che vanno violentemente ad accelerare l’ultima fase di ciò che Walter Benjamin definì “l’epoca della riproducibilità tecnica”. Ampliando l’argomentazione ai luoghi della cultura nel loro complesso e all’atteggiamento dialettico con il quale dovrebbero approcciare il cambiamento portato dall’evoluzione tecnologica, appare pregnante quanto Marc Fumaroli, storico e accademico francese, esprime in un articolo apparso su “La Repubblica” del 19 aprile 2011, in cui strenuamente si definisce contrario all’impermeabilità fra cultura e tecnologia, definendola come: « […] una tendenza che va combattuta, anche imparando meglio ad utilizzare le nuove tecnologie, che possono favorire nuove forme di lettura, di pedagogia e di conoscenza».
Il presente che stiamo vivendo è dunque da considerare in tutto e per tutto un momento storico di passaggio verso nuove modalità di fruizione legate ai cambiamenti tecnologici. Art Around si sta interrogando, e sta operando, per cercare di capire quali queste modalità saranno e sperimentare nuovi percorsi per il futuro. Poter avere la possibilità di partecipare a questo atto di vero e proprio pionierismo culturale è senza dubbio per il Teatro degli Arcimboldi – e per la Fondazione I Pomeriggi Musicali – motivo di orgoglio.

[/box][/expand] [expand title=”Biagio Bruccoleri. Direttore Settore socioculturale, Comune di Paterno Dugnano”][box]Biagio Bruccoleri

Come molte delle più recenti biblioteche, anche Tilane è stata progettata con l’idea che l’inverstimento economico pubblico potesse giustificarsi creando un luogo per la condivisione di esperienze e di saperi: uno spazio per promuovere l’arricchimento culturale e l’aggregazione, per offrire risposte sia ai bisogni informativi che a quelli di socializzazione dei cittadini. In questo doveva risiedere il valore civico della nuova biblioteca. Crediamo di esserci riusciti. Di certo, i dati ci dicono che siamo sulla buona strada.

La funzionalità degli spazi e il lay out sono stati progettati con lo Studio Aulenti, perché l’interpretazione, in tal senso, del luogo risultasse immediata e non richiedesse codifiche di funzioni e di valori.

Il mandato ideativo era progettare spazi, percorsi, servizi accessibili e capaci di soddisfare una domanda di città, un desiderio di luoghi urbani di qualità, in grado di raccontare storie, alimentare appartenenze, permanere nella memoria.

Valore, quello della memoria, al quale ci siamo ispirati anche per il naming: Tilane era il nome della fabbrica tessile che sorgeva in quel comparto, richiamata anche nell’impianto e nel modulo strutturale, con la lunga facciata sulla ferrovia e gli ambienti a doppia altezza con la luce zenitale proveniente dagli shed.

La centralità urbana e la riconoscibilità architettonica dell’edificio, insieme all’importante attività di comunicazione della biblioteca (in termini di immagine), stanno rendendo Tilane un luogo identitario, un catalizzatore di cultura partecipata.

Un ruolo fondamentale in questa direzione è anche la continua sinergia con la città, che permette di valorizzare le iniziative dei soggetti del territorio in veste di promotori culturali, ai quali Tilane si offre in termini di spazi e di supporto logistico-organizzativo.

[/box][/expand] [expand title=”Riccardo Gini. Direttore Parco Nord Milano”][box]Riccardo Gini

Buongiorno. Quella che vado a raccontarvi rapidamente è la storia del Parco Nord Milano dal punto di vista del suo rapporto con i cittadini e con le associazioni del territorio milanese.
Come tutte le storie in breve questa non è esattamente la realtà, ma quella che vado a tratteggiare è una mappa geografica che rappresentando il territorio rappresenta anche il narratore che vi parla: quindi siate generosi e prendete le mie parole come un’esperienza da cui partire per un dibattito e non come la ricetta della verità.
Rispetto al rapporto con i cittadini riesco a distinguere quattro fasi che si sono succedute una dopo l’altra ma che si rispecchiano l’una nell’altra e viceversa. Nel senso che quella che considero come prima non è ancora finita e quella che considero come ultima esisteva già, in qualche misura, quarant’anni fa.
La prima fase è quella che si potrebbe definire di « coinvolgimento politico», e va dagli anni settanta agli anni ottanta: il parco non esisteva, bisognava ancora istituirlo e, dopo l’istituzione, costruirlo.
Il quel periodo, grazie ad alcune associazioni ecologiste (gli «Amici del Parco Nord» in primis), si è riusciti a coinvolgere moltissime persone, a premere sulle istituzioni affinché istituissero il parco e a piantare i primi alberi per trasformare le aree degradate.
La seconda fase è quella che si può definire di « coinvolgimento sociale» del parco e corrisponde agli anni novanta: era necessario che tutti, e non solamente le associazioni impegnate politicamente, riconoscessero l’esistenza del parco, lo utilizzassero, ci credessero. É la fase in cui l’Amministrazione del parco ha dovuto conquistare la sua credibilità, dimostrare la sua efficienza e trasformare rapidamente l’ambiente per fuggire il degrado, e allo stesso tempo doveva farlo vivere per i fruitori abituali, cioè i residenti dei quartieri contigui al parco. Esempi di questa filosofia sono la costruzione delle aree di gioco per i bambini, delle prime strade pedonali e ciclabili, della prima passerella sopra una strada regionale molto trafficata, ma soprattutto i campi di bocce e i diversi tipi di verde, man mano che i boschi, le praterie, i viali alberati e le
altre infrastrutture verdi crescevano sempre più.
L’idea centrale di questa fase è che si doveva costruire un «paesaggio verde» pronto da vivere, da utilizzare perché i residenti frequentassero il parco, e che bisognasse avere degli alleati all’interno della comunità locale, soprattutto le persone anziane che avevano molto tempo libero e potevano impiegarlo presidiando il parco stesso.
La terza fase è quella detta del « coinvolgimento educativo», che si è concentrata sul creare e stabilizzare le relazioni territoriali con differenti tipologie di fruitori, trasformando il coinvolgimento sociale, la frequentazione spontanea e la fruizione indifferenziata in rapporto duraturo, responsabile e in armonia con la politica di sviluppo del parco. Questa fase ha inizio negli anni duemila e sfocia in diverse attività programmate per i bambini, i giovani, le famiglie, gli anziani. Il motto di questo periodo è «vivere il parco per vivere il mondo» e il target dei fruitori coinvolti non è più solo il mezzo milione di abitanti residenti nei dintorni del parco ma gli abitanti di un bacino più grande, di livello metropolitano, di quasi tre milioni di abitanti.
I programmi pedagogici per le scuole ma anche i campus per i bambini alla fine del periodo scolastico, le feste e i concerti nel cortile della Cascina Centro Parco, le attività domenicali di sensibilizzazione per le famiglie su specifici temi di ecologia, sono tutti esempi di questo, ma anche l’impegno di un centinaio di volontari nel servizio di vigilanza, nel monitoraggio ambientale, nel servizio civile e nella gestione di certe aree sportive del parco (per esempio il velodromo, il campo da softball, il teatrino, il microlab, ecc.).
L’ultima fase è quella attuale (che va avanti da qualche anno) che si può definire la fase di « coinvolgimento culturale». Il parco non ha più un valore solo ambientale o sociale ma anche un valore culturale. Ora bisogna scegliere le attività, le associazioni e i partner che ci aiutino a coltivare questo valore, il valore della biodiversità e della natura che va a «vincere sulla città».
L’esempio più preciso potrebbe essere quello del Festival della Biodiversità, che dal 2006 viene organizzato con il contributo di una trentina di altri partner: il Museo di Storia Naturale di Milano, l’università, le Associazioni, le organizzazioni no-profit, gli sponsor privati, le istituzioni locali e regionali.
In questo contesto il parco non è più una semplice «cornice» in cui è possibile organizzare non importa quale evento per attirare la gente, a condizione che sia rispettosa dell’ambiente, ma diventa esso stesso il quadro, il contenuto culturale da veicolare.
In effetti, lo sforzo è di riconoscere l’identità del parco metropolitano, che è sopratutto un luogo ricostruito, di natura vivente, e solamente attraverso questa identità può diventare un luogo d’aggregazione, di educazione e di cultura che non ha pari in questa città.
È il solo luogo di Milano dove si possono osservare le stelle, e questo diventa un’occasione di socializzazione e di conoscenza, per esempio. La declinazione di tutte le unicità che fanno l’identità del Parco Nord Milano è quello che io chiamo il «valore culturale» del nostro lavoro.
Questo valore va incontro alle esigenze e al gusto di tutto il pubblico? Forse no. E come dialogare con le altre culture e l’identità perennemente in trasformazione delle città contemporanee? Sono problemi nuovi, quindi bisogna fare attenzione perchè non c’è una soluzione, ma solo molti tentativi di dialogo. Quello che è vero è che per intraprendere non importa quale dialogo bisogna sapere chi si è e chi si può diventare.
Una persona anziana che ha visto tutte le trasformazioni del parco dalla sua nascita una volta mi ha detto che secondo lui il parco è diventato una sorta di lago, in cui tutti i quartieri della periferia milanese si specchiano. Questa metafora non è solamente una bella immagine, perché ci dà l’idea di un parco che è riuscito a collegare e a ricucire un territorio periferico interrotto nel mezzo, che storicamente non ha mai avuto alcuna identità individuale. Ma l’immagine del lago mi ha colpito anche perché è riuscita a rendere visibile l’identità del parco: quella di un enorme spazio naturale che si rivela nella sua profondità, ma anche quella di uno specchio superficiale in cui ciascuno può guardare la propria immagine di cittadino.

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Il convegno ha analizzato – senza pretese di esaustività – alcune tipologie di luoghi in cui la cultura viene prodotta, divulgata e fruita attraverso lo sguardo di alcuni operatori che, in Italia e all’estero, hanno maggiormente contribuito a una riflessione teorica e a un’azione concreta nel rinnovare pratiche e modelli di gestione e progettazione culturale.

Nella prima sono stati presentati alcuni modelli di luoghi e modalità di fruizione e produzione culturale (musei, mostre, spazi espositivi – teatri e spettacolo dal vivo – biblioteche e librerie –cultura sul web) con un accento agli aspetti di cambiamento e discontinuità rispetto al passato: dalla sostenibilità economica all’impatto sociale, dagli aspetti progettuali ai risvolti di tipo politico e culturale, delineando un quadro di possibile apertura sul futuro prossimo.

La seconda parte della giornata è stata dedicata a una tavola rotonda in cui sulle stesse questioni si sono confrontati gli operatori delle realtà culturali dell’area del Nord Milano che partecipano al progetto ART AROUND con un’attenzione privilegiata alle criticità e alle opportunità che questo territorio, ancora oggi in una fase di grande trasformazione, può offrire ai suoi cittadini.

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