The Memory of the Air
Quando mio padre mi disse che saremmo andati a farci scattare una foto, esplosi di gioia.
Della visita nel suo studio con la mia famiglia ricordo la sua delicatezza, la sua gentilezza. Entrammo dalla porta al piano di sotto, salimmo poi le scale e appena entrati ci accolse Geg Marubi. Ricordo la contentezza nel trovarsi, lui e mio padre, riuniti; erano amici di vecchia data e in quell’occasione conversarono a lungo. Notai le tende pregiate nello studio posizionate dietro le foto, ricordo la macchina fotografica ricoperta da un ampio panno nero.
Iniziò a disporci: chi si sedeva disponeva di uno sgabello mentre gli altri stavano dietro in piedi. Ancora una volta mi colpì l’estrema educazione che mostrava nel posizionarci, accompagnata da frasi quali “per favore”, “attenzione”, “ancora un po’ di pazienza”, “non tardiamo”, “ancora per poco”. Disse: “Signor Shurdha, mi permette, posso spostare la signora, solo un attimo, così, ecco”. Era la prima volta che assistevo a una tale premura e non l’ho più scordata da allora.
Oltre al valore dell’oggetto in sé, questa foto per me rimane come testimonianza di quella sua cortesia. Nella foto, a destra c’è mio padre Muhamet Shurdha, accanto la sorella Fatbardha, a sinistra mia madre, Nezihat Behri Shurdha, nella fila sopra mia sorella Vahide e l’altro sono io, Ahmet.

Una foto che ha sempre avuto unโimportanza particolare per me ritrae mio padre fuggito dai campi di concentramento a Prishtina. Ciascuno a modo suo pensa di avere un bel padre, ma il mio era davvero bellissimo, in ogni sua foto spiccava per questa sua bellezza e lโapparenza curata dei vestiti.
A diciannove anni รจ finito in un campo di concentramento a Prishtina e si รจ salvato per un caso assolutamente fortuito. Mentre si trovava con un gruppo di persone, condotto per essere fucilato, mio nonno lo vide e, capita la situazione, si fiondรฒ presso la gendarmeria per chiedere quanto chiedessero per sottrarre il figlio. Pagรฒ la cifra e mio padre venne fatto scendere e lasciato in attesa in un ufficio, da cui sentรฌ i suoi amici morire fucilati.
Solo piรน tardi ho capito che questa storia lo aveva perseguitato tutta la vita. Arrivato a novantโanni, viveva con me in Italia e forse sentendo di non dovere dare conto piรน a nessuno, scendeva dal palazzo, si accomodava alla stazione degli autobus e diceva ai passanti: โVolete che vi racconti una storia?โ
Oppure si recava al parco davanti casa e non appena avvistava qualcuno seduto, gli si avvicinava e iniziava a raccontare di quando a diciannove anni si era salvato dai nazisti e aveva sentito i suoi amici morire sotto i colpi di fucile. Conservo questa foto nella mia parte di casa, sul retro si puรฒ leggere una scritta a mano lasciata da lui che dice: โSono tornato dal campo di concentramento tedesco, in quattro mesi ho perso 19 kgโ.

Questo quadro eฬ ispirato a una foto di Shan Pici che abbiamo ritrovato oltre ventโanni fa. Eฬ rappresentata la vecchia casa di famiglia e lโhotel che possedevano tra gli anni Venti e Trenta.
Ha un grande valore per me, oltre a rappresentare una forma di radicamento storico.
Durante il comunismo, infatti, la mia famiglia, in quanto considerata scomoda dal regime, venne espropriata della propria abitazione.
Circa un anno e mezzo fa, mentre eravamo bloccati dalla pandemia, ho fatto una piccola ricerca presso gli archivi di Stato che hanno digitalizzato molti dei fondi che possiedono, e ho trovato del materiale piuttosto interessante. Nel giugno del 1924, i rivoluzionari presero il potere a Scutari e nellโintero paese, tra i loro oppositori figurava anche Musa Juka, un mio antenato. La casa venne sequestrata e i funzionari che si occuparono del sequestro compilarono un dettagliatissimo inventario di tutto cioฬ che conteneva: letti, armadi, cucchiai, coltelli, quadri appesi al muro. Nellโinventario, si fa cenno anche alla libreria che possedeva Musa Juka, considerato un intellettuale del suo tempo.
Il quadro, ispirato alla fotografia, diventa cosiฬ un oggetto vivo, in grado di fornire informazioni e suscitare emozioni per me e per tutta la nostra famiglia.
Stiamo entrando negli archivi del teatro Migjeni. Come potete vedere la stanza eฬ piuttosto buia. Ogni volta che entrando in questa stanza accendo la luce, davanti alla porta ad accogliermi cโeฬ lโimmagine di Paulin Lacaj. Lacaj eฬ stato uno dei primi otto attori professionisti di questo teatro, noncheฬ fondatore dellโarchivio, che ne preserva la magnifica storia.
La foto che vedete eฬ stata scelta apposita- mente da me. Nella foto Lacaj sta interpretando un ruolo, ha il dito alzato a mezzโaria. Lโho messa liฬ con unโintenzione precisa, cosiฬ ogni giorno quando apro la porta riesco quasi a sentire lui che mi dice: โRendi onore al lavoro che ho iniziato!โ
Ho un patto con me stesso: dovessi riuscire ย a fare metaฬ del lavoro che ha fatto lui vorraฬ dire che ho adempiuto al mio dovere di cittadino. Questo rende lโidea della sua grandezza. Ogni volta che consulto un documento dallโarchivio, un brivido si impossessa di me, mi sembra lo sentiate anche voi ora, riesco a vedere la vostra pelle dโoca.

Di Pietro Marubi abbiamo poche foto, molto piuฬ numerose quelle di Kel. Abbiamo fatto del nostro meglio per conservarle, nonostante le condizioni non sempre favorevoli. Durante il comunismo, ad esempio, mio padre venne condannato e tutti i beni di valore sequestrati insieme allโintero fondo fotografico. Tra le altre cose sequestrate, cโera anche un autoritratto di Kol Idromeno. Tutte le foto originali sono state perdute. Nonostante gli sforzi per recuperare il possibile, molte informazioni e materiali si sono persi, dopo il processo a mio padre, condannato a sette anni con lโaccusa di agitazione e propaganda. Negli anni, una volta che mio padre venne scarcerato, attraverso un lavoro di ricerca, siamo riusciti ad attingere ad altre fonti e recuperare queste che vi sto mostrando.
Le fotografie che ho in mano sono scattate negli anni che vanno dal 1955 al 1959. Queste fotografie mi ricordano non solo la mia infanzia ma anche quello che nelle famiglie scutarine era considerato il rituale della fotografia.
Mia madre era molto attenta nel tenere traccia dei vari momenti che segnavano la nostra crescita, in particolare dei compleanni. Si instaurava quella che definirei una forma di collaborazione tra genitori e fotografo. Ai genitori spettava il compito di fare in modo che i figli si presentassero vestiti al meglio. Ricordo gli sforzi di mia madre percheฬ ogni anno avessi un vestito a tema.

In questa foto in cui eฬ presente un considerevole numero di strumenti, soprattutto violini, ma anche strumenti piuฬ moderni come la batteria e il sassofono, spicca al centro il pianoforte. La posizione centrale suggerisce come fosse effettivamente considerato il re degli strumenti.
Il pianoforte che mancava in casa nostra arrivoฬ quando io avevo sei, sette anni, [mio nonno] portoฬ il piano a casa poicheฬ lui stesso suonava il violino ed era un uomo emancipato e ci teneva ci fosse uno strumento in casa nostra.
Grazie a unโintervista rilasciata da mio padre nel 1955 prima che morisse sappiamo che nel 1945 Prenk Jakova scrisse Juda Makabe, la sua opera piuฬ grandiosa e famosa, proprio a casa nostra. Le ragioni non le spiego e lascio che arrivino direttamente dalla voce di mio padre che dice: โPrenka non poteva scrivere in quanto esule, per cui scriveva in casa nostra con questo strumentoโ.
La sera prima, guardando la fotografia dello zio diceva: โNon so se ci rivediamo, temo proprio di no, buonanotte a te, sogni dโoroโ. La mattina dopo si svegliรฒ e fu colpita da un malore, trentasei ore dopo morรฌ. Mio nonno invece venne a visitarlo un pediatra, lo scambiรฒ per suo figlio perchรฉ avevano entrambi gli occhiali: โSei tornato?โ gli chiese. Al che mio padre intervenne dicendo: โMa no papร , non รจ Zija, รจ un altro, รจ venuto a visitartiโ...
โPensavo fosse mio figlio che era venuto a farmi visitaโ rispose lui.
La vita non ha risparmiato nessuno.
La prima foto che ho scelto eฬ la foto della famiglia di mio nonno. Ci sono il padre Ndreka, la madre Roza, le due zie, Shaqja e lโaltra di cui non ricordo il nome, il fratello Lorenc, e le due sorelle.
Mi piace iniziare da questa foto percheฬ vi sono raffigurati Lorenc e mio nonno Ludovik, due persone che potenzialmente avrebbero tramandato il cognome di famiglia. Lorenc purtroppo non ne ebbe il modo: venne ucciso nel 1945 lasciando quattro figli, tre femmine e un maschio, anche lui perseguitato dal regime, in parte a causa del suo legame con il padre, in parte a causa della sua attivitaฬ di poeta apertamente contro il sistema. Passoฬ la maggior parte della sua vita in prigione, dove moriฬ, il suo corpo abbandonato in cella per giorni prima che il vicino lo trovasse.
In questโaltra foto cโeฬ Luigj Toni, a Torino, dove ha studiato matematica.
Luigj Toni era nazionalista. Durante lโoccupazione italiana rientroฬ in Italia per combattere per la liberazione del paese, che peroฬ falliฬ. Non concluse gli studi in Italia e dopo il suo rientro condusse una vita travagliata tra il carcere e problemi con il comunismo. Perse un occhio durante la guerra, si sposoฬ molto tardi e per questo non ebbe figli. Lo conoscevo personalmente, era amico dei miei nonni. Lui e la moglie mi facevano tenerezza percheฬ non avevano figli, quindi capitava che andassi a stare da loro per qualche giorno.
Non lo dimenticheroฬ mai, Luigj era particolarmente portato per la scienza: mi aveva insegnato ad accendere una sigaretta servendomi di una lente e della luce del sole, aveva trovato questa modali- taฬ quando voleva fumarsene una e non trovava neฬ un fiammifero neฬ un accendino. Aveva problemi alla vista, per cui mi diceva che io dovevo essere i suoi occhi e quando batteva il sole mi mandava in balcone ad accendere la sigaretta con la lente.
Gjush, di lavoro, rilegava libri e ai suoi figli ogni notte ne dava da leggere uno; mia zia ancora ricorda con meraviglia quelle letture, erano genitori che ci tenevano che i figli crescessero con una certa cultura. Non erano ricchi, ma erano estremamente acculturati. Il figlio piuฬ grande era il famoso pittore Simon Rrota, il secondogenito Justin Rrota, linguista albanese, il terzo Kol Rrota. Kol ha lavorato come console a Vienna. Eฬ stato un ottimo console, ha aiutato in particolare un sacco di studenti, ricordo che una donna austriaca che venne in visita a casa lo riconobbe nelle foto, era cosiฬ entusiasta all’idea che lo conoscessi che mi abbraccioฬ.
In quelle foto c’eฬ la famiglia di mio marito invece. Mio marito eฬ il quarto Gjergi della famiglia. Gjon, Gjergi, Gjon, Gjergi, sono nomi tipicamente scutarini, che continuiamo a tramandare.
Angjelin ci ha impiegato circa quindici minuti a scattare la foto. Gli dicevamo, “scatta, scatta”, aspettava sorridessimo tutti. Alla fine, siamo tutti sorridenti e belli in posa, forse un po’ impettiti, ma si usava cosiฬ all’epoca. Diceva di voler catturare anche il profumo dei fiori nella foto, noi non capivamo, ancora oggi non capisco cosa stesse cercando per impiegarci quindici minuti a scattare, ma la foto ha resistito al tempo e credo continueraฬ a resistere ancora a lungo.
Questa fotografia molto vecchia circolava negli anni Venti anche come cartolina, in cui vi era segnalato che quello fosse il platano di Zef Zorba. Il platano secolare attualmente si trova nel cimitero cattolico. Si tratta di un pezzo della storia di Scutari.
Dopo il 1760, la presenza di famiglie cattoliche a Scutari aumentoฬ in maniera significativa, nacque cosiฬ la necessitaฬ di avere i propri cimiteri all’interno della cittaฬ. Allora, uno dei miei bisnonni insieme ad altri commercianti decisero di donare parte dei loro terreni alla Chiesa cattolica da adibire a cimitero. So che sullo stesso terreno venne piantato il platano di Zef Zorba. Le piuฬ antiche tombe cattoliche scutarine si trovano nel lato sinistro rispetto all’entrata, anche se le piuฬ belle sono sul lato destro. Questo percheฬ tra quelle piuฬ antiche, che costituiscono il nucleo originario del cimitero, diverse appartengono a famiglie senza eredi, per cui sono state abbandonate (una parte di queste eฬ oggi occupata abusivamente dai nuovi abitanti della cittaฬ).
Il punto in questione peroฬ eฬ un altro, cioeฬ la gioia che ci procura una foto, la felicitaฬ del momento che immortala e custodisce. Sfogliando le foto che ho fatto ai miei amici il giorno del diploma, sento la mancanza di quei compagni di classe.
A quanto pare ogni tanto anche noi uomini siamo sentimentali.
Questa eฬ la foto di un gruppo di amici che stava venendo verso di me. Provo una grande gioia nel ricordare quegli anni dellโadolescenza, nemmeno il comunismo eฬ riuscito a scalfirla, lโadolescente non ne vuole sapere e si gode la vita.
Questa foto eฬ stata scattata nel 1958 a Scutari, ci siamo Geg Marubi, Luigjina Perdoda e io. Era una giornata molto fredda di neve, uscimmo per una passeggiata e un nostro amico, Angjelin Neฬnshati, fotografo rinomato, ci scattoฬ questa foto, dopodicheฬ rientrammo a casa. Cosa ne penso di Geg Marubi? Era una persona estremamente educata, molto gentile e quando qualcosa non gli piaceva non si adirava mai, teneva le proprie opinioni per seฬ, non offendeva nessuno, era un gran lavoratore, molto vicino a noi. Ci parlava sempre dell’arte, quella vera.
“Non scegliete contrasti marcati”, diceva, “la fotografia deve essere morbida, dolce, deve avere rilievo, non contrasto”.
Questa eฬ una delle foto che preferisco in assoluto. Mia madre teneva particolarmente al nostro abbigliamento. Lei e papaฬ erano sempre molto curati e si assicuravano che anche noi figli ci presentassimo sempre al meglio.
Quegli scatti che tappezzavano i muri di casa mia fanno parte della mia infanzia. Grazie a loro so molto di Scutari e della fotografia, mentre avevo ancora molto da scoprire su Marubi e la storia del suo studio fotografico, di cui conoscevo solo quello che aveva prodotto per la mia famiglia.
Un’intera comunitaฬ si osservava allo specchio di quella che era stata la societaฬ albanese degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta e anche io mi ritrovai a fare la stessa cosa. E come credo capitoฬ anche ad altri, quella ricerca mi riservoฬ alcune sorprese: trovai infatti alcune foto inedite di mio nonno accompagnato da altre signore, prima del matrimonio con mia nonna. Divertita, le mostrai a mia madre per chiedere se le conoscesse e sapesse se si trattava di amiche, cugine, amanti. Attraverso le foto si scoperchiavano vicende e argomenti di cui magari non si era mai parlato, penso sia successo anche ad altre famiglie, per la mia eฬ stato piuttosto divertente. Altre foto invece mostravano parenti che non avevo nemmeno mai avuto modo di conoscere prima, per cui fu una bella occasione di scoperta.
La gara successiva si tenne sempre presso la cattedrale. Gli unici decori rimasti identici erano quelli del soffitto che ricordavo dalle mie memorie di infanzia. Lโocchio continuava a posarsi su quei soffitti alti, mentre pensavo โe se stessi commettendo uno sbaglio?โ. Sentivo di stare compiendo un qualche affronto verso Dio. Ero solo una bambina, non avevo idea quali fossero i precetti religiosi da rispettare, dato che non erano rientrati nellโeducazione impartitami dai miei genitori. Mi piaceva molto andare in chiesa e loro ogni volta mi chiedevano il percheฬ.
Penso che Marubi, con questa disposizione, abbia voluto creare uno schema simbolico di quello che era il mondo albanese all’epoca. Nonostante le differenze linguistiche, che si esprimevano nei dialetti cresciuti in seno alle divisioni geografiche, definite da una catena montuosa che corre lungo il centro del paese, viene rimarcata l’esistenza di una comunitaฬ spirituale, linguistica e culturale. Era necessario ci fosse qualcuno a ribadirlo esplicitamente, visti gli scarsi scambi nella scena culturale di allora; il Sud e il Nord portavano avanti ciascuno la propria ricerca senza cercare un orizzonte di scrittura comune.
Nella foto la casa era chiusa, e il cฬงardak piuฬ contenuto, segnato dalle piogge e dalla polvere. Per me l’originale eฬ molto bello, non mi spiego percheฬ gli architetti che vi lavorarono all’epoca lo trasformarono come lo vedete oggi. Lo preferisco cosiฬ come in foto, piuฬ raccolto e comodo.
In questโaltra foto cโeฬ mia suocera, nella sua inconfondibile eleganza, dico sempre a mia figlia di quanto si debba sentire fiera di aver avuto una nonna del genere. La foto risale al 1916, per molto tempo non lโabbiamo avuta in casa, negli innumerevoli sequestri e ricollocamenti subiti durante il comunismo, infatti, lasciavamo le case senza nemmeno avere il tempo di raccogliere foto, documenti, mobili, nulla.

In questa foto ci sono io, era il 1986 o 1987 e suonavo a un concerto a Scutari, organizzato nellโambito della rassegna estiva del cinema allโaperto. Io suonavo il flauto e nella foto sto eseguendo un assolo piuttosto difficile. Mi accorsi che un uomo si muoveva alle mie spalle. Cominciavo a domandarmi quando si sarebbe allontanato, quando notai che si trattava di Angjelin Neฬnshati. Angjelin era conosciuto per impiegare molto tempo per ogni suo scatto, ottenendo peroฬ sempre risultati meravigliosi.
In quel frangente, poco mi importava di uscire bene in foto, per questo, quando in un momento preciso sentiฬ il click, fui sollevato di poter continuare a suonare tranquillo. Dopo che mi ha fatto avere questo scatto non cโeฬ stata occasione in cui non lโabbia utilizzato. Le sue foto erano bellissime, mostravano tutta la dedizione e lโamore che aveva per quello che faceva, non premeva mai il click della fotocamera a sproposito. Questo che vi racconto eฬ un piccolo episodio ma credo sia a modo suo significativo, soprattutto per raccontare Angjelin.
Lโattivitaฬ del club subiฬ una breve interruzione che non saprei datare con precisione, ma considerando che la foto eฬ del 1911, venne scattata probabilmente poco dopo la ripresa delle sue attivitaฬ. Qui in particolare possiamo vedere dei membri intenti a leggere la rivista Bashkimi i Kombit (Unitaฬ della Nazione), pubblicata a Monastir (Bitola), che si trova nel Sud dellโattuale Repubblica della Macedonia del Nord.
Mio nonno Lazeฬr Gurakuqi lavorava come corrispondente per la rivista: nella foto, scattata da Marubi, lo si vede intento a leggere un numero ai suoi amici. Come si puoฬ notare hanno sempre rispettato le norme di espressione identitaria che vigevano allโin- terno dellโImpero, indossando in pubblico il fez rosso. Mio nonno, qui, in onore dellโAlbania indipendente non lo indossa. Eฬ un dettaglio che mi aveva fatto notare mio padre e prima ancora mia nonna e da allora mi eฬ rimasto impresso.
Ogni foto ha una storia e ogni storia eฬ una storia a seฬ. Questa, in particolare, eฬ per me carica di suggestioni e mi sembra, attraverso quel mio sguardo, di comunicare con voi che la state osservando. Come accadeva sulla scena, quando con il pubblico davanti sentivo di assorbire la loro energia, qualcosa che scatena una forte gioia interna. La comunicazione nella fotografia eฬ molto importante, e qui ci vedo sinceritaฬ, purezza, mi ricorda la mia giovinezza, le passeggiate lungo il boulevard, il palco, gli applausi, tutte quelle emozioni, la scuola, i fiori, l’affetto smisurato delle persone di Scutari a cui sono cosiฬ riconoscente percheฬ mi hanno regalato un’energia meravigliosa che mi sono portata dietro in tutti i miei lavori successivi, sia al cinema che a teatro.

Ogni anno, da quando sono nata fino ai sei anni, mio padre mi ha portato da Marubi a scattare una foto. Qui ho cinque anni, Marubi, ricordo, mi fece salire su una sedia piuttosto alta e mi chiese come volessi posare. Mi piaceva pavoneggiarmi un poโ, allora accavallai le gambe, non era niente che avessi visto in TV o da al- tre parti, tutta farina del mio sacco.

Questa foto me lโha data mio zio, eฬ stata scattata quando frequentavo la quarta elementare. Era tornato per le vacanze dallโUnione Sovietica, dove studiava. Con seฬ aveva portato alcuni regali, tra cui un pallone con cui io e i miei amici giocavamo.
โLโalunna del quarto anno, Terezina Rakaj, dirige in maniera eccellente la brigata dello studio. Ha aiutato molto le sue amiche i cui voti ora sono ottimi. Prima di ritrovarsi con le amiche per la lezione, Terezina si prepara molto bene autonomamente e dopo un momento di studio estremamente proficuo organizza anche una pausa per giocareโ.
Un episodio in particolare legato a questa foto la rende cosiฬ preziosa.
Al momento dello scatto, forse a opera di Pietro Marubi, uno dei lavoratori della sartoria si nascose per sottrarsi all’obiettivo. La sua motivazione era che solamente Dio ha diritto a fotografare l’uomo, a vederlo, nessun altro.
Le persone allora avevano ancora una certa resistenza a essere fotografate, nonostante Scutari sia stata la prima cittaฬ in Albania dove eฬ approdata la fotografia, se non una delle prime in Europa.

Amo le foto, amo selezionarle e organizzare le piuฬ belle in ordine cronologico. Quando sfoglio lโalbum ho lโimpressione di guardare un documentario a cui manca solo lโaudio. Riordinandole, rivivo momenti di felicitaฬ e tristezza, ogni foto conserva un ricordo unico, magico in una certa misura. I bambini che di anno in anno crescono mentre noi invecchiamo, matrimoni, feste, vacanze, uscite, amici, parenti. Li sfoglio spesso, a volte con un sorriso altre con le lacrime agli occhi. Non importa quanto sia avanzata la tecnologia, nutriroฬ sempre un particolare attaccamento per gli album fotografici. Credi che qualcun altro si prenderaฬ la briga di continuare questo lavoro? Non lo so con certezza, ma mi piacerebbe.
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