Insieme alle installazioni delle opere di Adrian Paci e ai progetti realizzati durante le residenze a Gibellina, il programma dei festival ha previsto la realizzazione di un’esposizione con le immagini di 10 fotografi, anch’essi selezionati attraverso una call internazionale, che sono stati presentati al pubblico con spazi, materiali e allestimenti diversi a seconda delle scelte operate dalla direzione artistica di ciascun festival.
La giuria, composta da Matteo Balduzzi, Museo di Fotografia Contemporanea; Vincenzo Fiammetta, Fondazione Orestiadi; Hercules Papaioannou, Thessaloniki Museum of Photography; Andrea Laudisa, Istituto Culture Mediterranee/Positivo Diretto; Antonella Montinaro, GACMA, ha selezionato:
Carlos Alba (E, 1984), THE OBSERVATION OF TRIFLES, 2013 – 2016
Il progetto di Carlos Alba, The Observation of Trifles, è composto da una sequenza di immagini combinate in dittici che raccontano storie accidentali costruite attraverso il flusso irregolare della casualità; dittici che, in un flusso di coscienza alla Joyce, associano il recupero di oggetti a volti e scorci che si possono trovare sulla strada. In questo modo, i soggetti fotografati diventano luogo di sedimentazione e stratificazione, portando così l’artista a scoprire nuovi modi di comprensione della vita di tutti i giorni e a creare una storia attraverso libere associazioni, che fanno percepire allo spettatore un ordine anche nella casualità.
Fabrizio Albertini (I, 1984) DIARY OF AN ITALIAN BORDERWORKER, 2015
Diary of an Italian Border-worker è un lavoro che parla del viaggio e parla del confine insieme. Il termine “viaggio” prevede che si varchi un confine, mentre il concetto di “confine” contiene in sé quello di limite, di valore massimo intransitabile. Far convivere le immagini di attraversamento e valico pare un’astrazione, eppure le immagini di Fabrizio Albertini si snodano in un dialogo silente, fatto della loro coesistenza in una consuetudine, in un familiare appuntamento con la quotidianità. Toni alti ed espressività leggera si intrecciano in immagini lievi, calibrate, dal candore un po’ ceruleo, un po’ porpora di una realtà vicina e al contempo lontana.
Dario Bosio (I, 1988) ON THE IDENTITY OF A TOMATO PICKER, 2014
Puglia, la lotta quotidiana dei raccoglitori di pomodori per il rispetto della loro dignità e per la sopravvivenza della loro identità personale. “Ho lavorato su questa serie con lo scopo di raccontare una storia che potrebbe rispettare il diritto di queste persone di auto-rappresentarsi” spiega Dario Bosio che mostra una storia atipica ma fortemente reale per mostrare il concetto di sopravvivenza attraverso il lavoro, inteso come garanzia di quella identità a malapena protetta da notizie ordinarie. On the identity of a Tomato Picker non è un tentativo di ridurre tutto mera denuncia, ma rivela che la catena di comunicazione può rompersi, incurante delle personalità nascoste dietro a tutte quelle anime esauste.
Giorgio Di Noto (I, 1990) THE VALLEY, 2011
La Valle del Belice si sviluppa intorno al corso del fiume Belice. È collocata nella parte occidentale della Sicilia, tra le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Alle 13:28 del 14 gennaio 1968 la zona fu colpita da un forte movimento tellurico che sfigurò la conformazione urbanistica dei comuni della valle e del comprensorio. La ricostruzione successiva ha dato luogo a uno degli scandali architettonici del secondo dopoguerra; come Di Noto stesso riferisce “il processo di ricostruzione è stato ispirato dal modello delle città danesi e la gente di questa valle che viveva in piccoli villaggi collegati da strade strette, ora vive intorno a strade molto ampie circondate da strutture vuote”.
The Valley è il lavoro fotografico, condotto nel 2011, a quarantatre anni dal terremoto, che analizza come un progetto architettonico possa imporsi sul paesaggio e sulle persone, violentando l’assetto identitario di un’intera generazione e proponendo a quelle successive una visione trasformata e quasi schernente la storia di quegli stessi luoghi.
Anne Euler (D, 1985) GROUPING, 2016
Anne Euler si affaccia su un’anonima piazza di Guadalupe e, raggruppando i passanti secondo un criterio di unificazione cromatica, cerca di restituire omogeneità ad una folla eterogenea. Già le teorie della Gestalt e in particolare Werthemeir avevano sostenuto che non c’è corrispondenza diretta tra la realtà empirica e quella che ognuno di noi percepisce; allo stesso modo anche la fotografa tedesca pone la domanda: “how do we see the world?”. Troppo spesso osserviamo e giudichiamo ciò che abbiamo intorno, muovendo da un’analisi delle impressioni superficiali che, sicuramente, hanno un ruolo fondamentale nella nostra percezione visiva, ma poco raccontano della vera identità dei singoli. Da una parte vi sono gli elementi del mondo esterno, che si identificano con una massa omologata, dall’altra l’osservatore che, attraverso un’elaborazione intellettiva, deve mettere in discussione le sue illusioni percettive. Grouping quindi è omologare ciò che si vede per operare una critica verso la spersonalizzazione, nella quale troppo spesso tutto viene stereotipato, dimenticando le diverse identità e gli Io più profondi.
Jorge Fuembuena (E, 1979) HOLIDAYS, 2010
Il duro lavoro delle vacanze. Jorge Fuembuena ritrae i luoghi delle ferie con l’apparente senso di libertà che li contraddistingue e la reale, sottesa rete di regole che li governa. Il rapporto con la natura di questi siti è filtrato da una serie di consuetudini che fa dell’individuo una sorta di ingranaggio in un sistema consolidato che annienta l’individualità locale, inserendo i “natural landscapes” in un equivalente modus operandi vacanziero. Le fotografie di Fuembuena, forti di una luce rivelatrice, fanno emergere la figura umana, individuata da contrasti cromatici, alienandola dai fondali paesaggistici che restano, altresì, la ragione unica dei tanto bramati giorni liberi.
Gloria Oyarzabal (UK, 1971) (STILL) THE BARBARIANS, 2016
Il termine Barbaro (βάρβαρος) nel mondo classico indicava una persona balbuziente, che non sapeva pronunciare correttamente il greco. Il termine ottenne quindi un’accezione dispregiativa quando si impose l’idea di una contrapposizione tra una cultura positiva, civile, “superiore” e un’altra, quella barbara, vista come rozza, incivile, quasi ostile. Il termine “barbaro” divenne uno strumento essenziale che i popoli greci prima, e romani poi, utilizzavano per indicare i popoli invasori e stranieri, prendendolo come pietra di paragone per poter definire la “normalità”. Si tratta di stereotipi etno-centrici mai scomparsi: chi usava e usa la parola “barbari” per definire un’umanità diversa e degradata di solito pensa di non appartenere a quella tribù; ma la verità è che per ognuno di noi i barbari sono sempre gli altri. In realtà, non esiste alcun confine territoriale definito e riconoscibile che divida gli uni dagli altri. Il lavoro della Oyarzabal indaga i “barbari” dei giorni nostri e gioca con queste sottili cesure territoriali, svelando al tempo stesso quanto esse siano immaginarie e irreali: le tende di un’abitazione, la gabbia di uno zoo, un filo spinato, perfino un arcobaleno. Ancora una volta sta a noi guardare questi nuovi barbari come gramigne che impoveriscono le culture, oppure ammirarli come nobili selvaggi, portatori di rinnovamento e idee nuove.
Alessia Rollo (I, 1982) FATA MORGANA 2015 – 2016
Fata Morgana nasce nel 2015 da una personale esigenza dell’autrice di esplorare e ricostruire il proprio territorio di origine, il Salento, attraverso una lente della migrazione, del passaggio e dell’attraversamento, elementi che sin dall’infanzia hanno marcato il suo ricordo e la sua memoria. Il Salento, come l’Europa tutta, è recentemente diventato fenomeno illusorio di popoli in fuga dall’Africa, dai Balcani o di turisti in cerca di nuovi paradisi dell’ozio.
Analizzando alcuni simboli e alcuni scenari legati a fenomeni recenti e passati, decontestualizzando oggetti e creando messe in scena, in questo progetto Alessia Rollo ha “cercato di indagare il legame che si è stabilito con la memoria, cercando di dare nuovi significati e aprire nuovi immaginari meno drammatici dal punto di vista estetico, ma non per questo meno significativi su fenomeni come lo sfruttamento dei lavoratori stagionali, la migrazione clandestina o il rapporto con la vicina Albania”.
L’autrice ha definito questa ricerca un tentativo di restituzione di complessità all’immagine del Salento, così appiattito dal marketing territoriale regionale degli ultimi anni.
Ekaterina Vasilyeva (RUS, 1977) ROAD TO PETERGOF, 2015 – 2016
Tornare a casa dopo due anni, intraprendere un utopistico viaggio su una strada centenaria lunga trentadue chilometri che separa San Pietroburgo da Petergof: ritrovare la stessa neve ma di un bianco diverso e i tramonti meno rosa. Osservare le rughe della gente e riscoprirsi straniera a casa propria. Partire per prendersi una lunga pausa dai luoghi familiari, dai percorsi battuti di una Russia evanescente e tornare per guardarli con occhi nuovi. Scavare negli strati soprammessi di una quotidianità dimenticata, ma tutta da riscoprire per ritrovare se stessi. La Vasilyeva diventa in questo viaggio in casa propria un’archeologa visiva che scandaglia il passato nascosto della sua Russia rurale per ricostruire i pezzi della sua identità. “Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca” diceva Costantino Kavafis, e forse è tutto già qui, in questa poesia, il senso della vita. Perché il vero viaggio è il ritorno.
Fabrizio Vatieri (I, 1982) MEDITERRANEAN DRAMA, 2012 – 2016
Nel nero profondo c’è una superficie intangibile dove si posa e si specchia una piramide. “Egitto”, c’è scritto sopra uno dei suoi lati, se quella parola non ci fosse non sbaglierei di certo ad aggrapparmi all’uncino del senso e scandire parole come: Titanic, Iceberg, Naufragio, Novecento. Tutto questo si immerge subito in un futuro nostro fatto di acqua dove non si tocca, di naufragi quotidiani, di fondali troppo alti e distanze fisiche e mentali troppo insormontabili a segnare l’attuale Mediterraneo. Un Mediterraneo-solido geometrico nel nero, come perso nel Cosmo, senza tempo e senza direzione.
Ho anche io una statuina così, nera e appuntita sullo scaffale di casa, vecchio ricordo di un classico viaggio in famiglia con giro sul cammello. L’Egitto e il suo nero, cosmesi e mistero, manto oscuro di tortura e non emerso, Egitto multiplo e intercettato nell’etere dal cinema e dagli alieni, acqua splendente di fiume che si perde nei millenni.
Ma non c’è solo l’Egitto in questo complesso progetto di Vatieri che inizia nel 2012 e affronta un viaggio nel Mediterraneo occidentale. In questa ricerca, protesa a limare il magma immaginifico dal grand-tour alle migrazioni, dal colonialismo al turismo, emergono misteriche forme e l’idea di una certa impossibilità a restituirne, alla fine, un unico nuovo ritratto.
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